«I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li riproduce»: è la didascalia, incisa come una lapide nell’immaginario, che conclude il capolavoro del maestro partenopeo Francesco Rosi, Le mani sulla città.
Domenica sera, ai Cantieri Culturali della Zisa – oasi artistica irraggiungibile con facilità con il trasporto pubblico – nella sala cinematografica che porta il nome di Vittorio De Seta (geniale cineasta mai sufficientemente considerato), è stato proiettato il film, premiato a Venezia nel 1963, emblema del cinema “politico” italiano, lucida e dettagliata rappresentazione delle dinamiche del potere, della corruzione, degli intrecci tra affari e politica dell’Italia della ricostruzione del Dopoguerra e del boom economico.
Era il secondo appuntamento della rassegna cinematografica “Le due Sicilie di Francesco Rosi”, che prevede la proiezione di quattro pellicole del regista napoletano, scomparso pochi mesi fa, organizzata dall’Associazione Culturale Lumpen, sotto la direzione del regista palermitano Franco Maresco. L’occasione (purtroppo partecipata prevalentemente da cinefili ed appassionati) di rivedere lungometraggi che hanno segnato la storia del grande schermo (e non solo), dopo il favoloso restauro operato dalla Cineteca Nazionale delle due opere Salvatore Giuliano e, appunto, Le mani sulla città.
A precedere la proiezione, un dialogo tra il direttore della manifestazione Maresco e il procuratore della DDA di Palermo Francesco Del Bene, impegnato anche nel processo sulla trattativa tra Stato e Mafia. Il magistrato, incalzato dalle domande del regista, ammette il legame personale con il film: l’incipit (il crollo della vecchia palazzina) è stato girato nel quartiere in cui lo stesso, da piccolo, trascorreva i pomeriggi. La connessione però non si limita alla nostalgia. É anzi lo spunto per intervenire su una analisi storica complessiva del rapporto tra economia, politica e criminalità – a sessanta anni dalla realizzazione sembra ancora più semplice.
Entrambi, distanti per formazione e ruoli, ma vicini nella ricerca di una visione della reale – non è forse il compito di un documentarista e di un giudice, presentare la “verità”? – continuano un analisi che trascende il linguaggio cinematografico e si addensa nella realtà concreta. Fitta di intrighi e malaffare, che hanno rovinato la nazione e le sue città. La corruzione è male antico, già messo in mostra da Rosi, che gli Italiani non sono riusciti a debellare. «È colpa di una classe politica, che non è stata capace di approvare leggi che la stanassero, ma anche, e qui faccio autocritica, di una magistratura che non è riuscita ad andare a fondo nelle indagini», dichiara il procuratore della Repubblica.
Non rimane che godere del bianco e nero delle immagini (splendidamente restaurato) che buca lo sguardo, tra i cupi scranni del consiglio comunale napoletano, dove si è consumata una vicenda solo in parte immaginaria, che ha condotto alla rovina delle realtà urbanizzate, garantendo i profitti degli speculatori senza scrupoli. Poco importa se si chiamino Nottola o Ciancimino. La connessione con ciò che è stato, a Napoli come a Palermo, è “autentica”.
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