«Spero che nessuno voglia farmi domande sul terrorismo, sono cose ormai lontane da me». Così Renato Curcio ha aperto venerdì scorso la sua conferenza tenuta a Catania, al centro sociale Auro; ed ha deluso i curiosi che si aspettavano da lui che nel 1970 fondò le Brigate Rosse e che per questo è stato in carcere fino al 1993 qualche dichiarazione sulle nuove BR. Argomento dellincontro sono stati, invece, i nuovi proletari. Che non lavorano più in fabbrica come accadeva nel 68 ma nelle aziende operanti nel mondo della distribuzione organizzata (Coop, Auchan, Autogrill, Standa). È di loro che Curcio adesso si occupa nelle sue ricerche, realizzate per la cooperativa Sensibili alle foglie, che cercano di mettere in luce, attraverso le dirette esperienze di questi lavoratori, il rapporto azienda-dipendente. Nel dibattito seguito alla conferenza, gli intervenuti hanno rivolto a Curcio molte domande sulla sua attività attuale. Ne è venuta fuori una specie di intervista collettiva. Eccola.
Come si svolgono le sue ricerche?
Credo che la fonte del sapere siano le persone che vivono le esperienze. Noi costituiamo un gruppo in cui, dato un tema, ognuno dei partecipanti ci fornisce la propria esperienza, poi selezioniamo quelle più indicate per noi. Loggetto di cui mi occupo nella maggior parte delle mie indagini sono i lavoratori precari.
Quali sono i criteri in base al quale selezionate queste esperienze?
Non ci preoccupiamo di fornire statistiche, ma cerchiamo di comprendere, attraverso le parole dei lavoratori, come lazienda si relaziona con loro. Quindi scegliamo quelle esperienze che più ci permettono di intendere tale relazione.
Comè cominciato questo lavoro?
La prima ricerca mi venne commissionata dai sindacati che cercavano di capire perché nelle aziende stava scomparendo la figura del delegato sindacale. Scoprimmo così che i lavoratori di queste aziende non hanno dei contratti collettivi, come accadeva una volta, ma ognuno di loro ne possiede uno proprio, scritto in base alle sue esigenze. Questa trasformazione avvantaggia lazienda, che ha il pieno controllo su ognuno dei suoi dipendenti. Inoltre, visto che la maggioranza di questi contratti sono precari, lazienda è autorizzata a chiedere al dipendente la massima flessibilità, ovvero di sacrificare la propria vita, spesso per uno stipendio da fame. Lazienda diviene così totale, una struttura in un certo senso simile ad un carcere.
Cosa si può fare per combattere tale situazione?
Il mio ruolo è cercare di capire, non giudicare. Combattere certe situazioni tocca ai politici e ai sindacati. Certamente non si può chiedere alle aziende di cambiare. Loro utilizzano il principale strumento di dominio di questo mondo: la paura. Mettere paura, in unazienda, come in tutto il mondo, significa fare accettare agli altri i propri voleri. I lavoratori precari sono spaventati di perdere il posto, quindi sono costretti ad essere passivi nei confronti dellazienda. Ad esempio, alcuni sono stati licenziati per aver rifiutato una carta prepagata da sfruttare allinterno del negozio al posto del loro stipendio.
In una delle sue ricerche (Il consumatore lavorato), lei si occupa dei prodotti provenienti da campi in cui lavorano schiavi, di industrie che inquinano i fiumi, di altre che pagano eserciti per conquistare materie prime. Come possiamo scoprire da dove arrivano i prodotti che compriamo?
Bisogna obbligare le aziende a renderne pubblica la provenienza. Ma non basta conoscere solo il luogo dorigine, dobbiamo essere consapevoli di tutto il ciclo. Recentemente, si è venuto a sapere che alcuni pomodori coltivati in Puglia erano raccolti da extracomunitari costretti a vivere stipati in masserie. Nessuno se ne era mai accorto perché lazienda che controllava i campi era in regola. Questi pomodori passavano dalla Cirio e arrivavano alla Coop. Ma il vero problema secondo me è un altro: siamo veramente disposti a cambiare i nostri regimi di consumo? Non manca una via duscita, da nessuna situazione. Ma quando un uomo è rassegnato, allora diviene impossibile vederla.
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