Regeni, il ricordo di Palermo a due anni dalla scomparsa «Non esiste un caso Giulio, questa in Egitto è la norma»

«Le ossa di mani e piedi erano tutte rotte. Così come cinque denti. E cinque erano anche le lettere trovate incise sul suo cadavere, quasi avessero usato il suo corpo come lavagna. E tagli, tagli ovunque». Lo ritrovano così Giulio Regeni il 3 febbraio di due anni fa, abbandonato nudo e irriconoscibile lungo una scarpata in Egitto. Scompare nove giorni prima, alle 19:41 del 25 gennaio. E a due anni da quel giorno sono ancora troppe le domande che non trovano risposta. Non una ufficiale, almeno. Oggi a ricordare la sua scomparsa è, insieme a tutte le altre città italiane, anche Palermo, in una Sala delle Lapidi gremita di gente e soprattutto di studenti. Un momento intenso, dovuto, dopo due anni avvertito distintamente ancora come qualcosa di necessario. «Se la mamma di Giulio ha riconosciuto il figlio solo dalla punta del naso, com’è possibile che quel corpo buttato lì fosse quello di Giulio? Che certezza poteva avere chi ha diffuso la notizia del suo ritrovamento? Evidentemente chi ha sparso la notizia sapeva, aveva avuto a che fare proprio con la sua scomparsa».

Un interrogativo, quello sollevato da Maria Vittoria Cerami, presidente del Gruppo Italia 233 di Amnesty International, presente anche quest’anno all’appuntamento per ricordare il ricercatore di Trieste, con la partecipazione della Camera penale e del Rotaract Palermo Est. «Non esiste, tuttavia, un caso Giulio», aggiunge poi. «Giulio – prosegue – è l’ennesimo uomo scomparso, seviziato, ucciso in Egitto. Sono 1676 le persone sottoposte a tortura in quel paese. Di queste, 500 sono morte». Questo accadeva nel 2015. Mentre il nuovo anno si apriva già con altre 88 persone torturate e di queste otto decedute. «Sono numeri che ci dicono che non esiste il caso. Giulio è la persona che ha fatto venire a galla in Italia quello che accade in Egitto a tanti egiziani ed egiziane di cui noi non sappiamo nulla e che le famiglie spesso non hanno neppure la possibilità di piangere».

Le domande che restano in sospeso, a distanza di due anni sono ancora molte. Trovato il suo corpo, a rincorrersi sono stati soprattutto maldestri depistaggi e bugie: aveva fatto quella fine perché coinvolto in un traffico di droga, perché omosessuale, perché contro il regime di Al Sīsī. «Sappiamo che per condurre le sue ricerche sui sindacati era stato messo in contatto dalla sua tutor di dottorato a Cambridge con una economista egiziana, che a sua volte lo aveva messo in contatto con Abdallah, un ambulante e sindacalista vicino ai servizi segreti – continua Cerami -. Un uomo che probabilmente intravide, nell’incontro con Giulio, la possibilità di prendere per sé i soldi stanziati dall’università. Lui voleva quei soldi, è probabile che abbia venduto Giulio ai servizi segreti, facendolo passare per un oppositore del regime. Ma quello che sappiamo ad oggi è ancora veramente troppo poco».

Il 15 gennaio Regeni avrebbe compiuto 30 anni. A riempire Palazzo delle Aquile e a prendere parte alla fiaccolata commemorativa delle 19 ci sono i ragazzi del classico Garibaldi e dello scientifico Benedetto Croce. Ragazzi poco più piccoli di lui. Qualcuno registra il dibattito, qualcun altro prende appunti, altri si commuovono. Qualcun altro, poi, vittima di certi interventi forse troppo scontati e retorici, non resiste alla tentazione di distrarsi e scattarsi qualche selfie, mentre in sottofondo si discute di tortura e verità negate. A chiudere il dibattito è il sindaco Orlando: «Non è un giorno di ricordo, piuttosto di memoria. E facciamo memoria non perché quello che è accaduto è terribile, certo che lo è. Ma, soprattutto, perché non accada più. Quello che è accaduto dopo il ritrovamento di Giulio è forse anche più grave – continua il primo cittadino  -. Penso al dopo via D’Amelio, al dopo strage di Ustica. A tutto quello che ancora non sappiamo, che ci viene negato. Chissà quanti altri Giulio Regeni ci sono di cui noi non sappiamo niente. Sono queste le occasioni in metterci in moto, interpellarci rispetto a tutti gli altri casi. Perché, è chiaro, c’è un problema di diritti umani in questa civilissima Europa».

Silvia Buffa

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