«Rinunce al reddito di cittadinanza? Fake news». Il bollo della falsità è arrivato due sere fa, in diretta televisiva, da Luigi Di Maio. Il ministro dello Sviluppo economico ha archiviato così le voci secondo cui tra i beneficiari del sussidio voluto dal Movimento 5 stelle possano esserci anche degli scontenti. Talmente delusi da convincersi che si stava meglio quando si stava peggio. «Ho chiamato Tridico e ha detto che non c’è alcuna lettera di rinuncia», ha specificato Di Maio.
Già consigliere del Mise, Pasquale Tridico da metà marzo è il presidente dell’Inps, dopo avere preso il posto di Tito Boeri. Il numero uno dell’istituto nazionale di previdenza sociale, ovvero l’ente che si occupa della gestione delle erogazioni, ha parlato a pochi giorni dal primo giro di boa – a fine mese dovrebbero partire le nuove erogazioni – per la misura rivendicata dai cinquestelle come strumento di lotta alla povertà. «Su un milione e 125mila domande, abbiamo avuto una decina di casi di persone che si sono limitate a chiedere informazioni se fosse possibile rinunciare, ma nessuna richiesta reale», ha assicurato il presidente dell’Inps. Per poi chiarire che «non è prevista la rinuncia».
Un’affermazione, quest’ultima, che, stando a quanto accade nelle sale d’attesa dei Caf, potrebbe risultare allarmante. Il motivo è presto detto: a pensare di tirarsi fuori non sarebbero in pochi. Un esempio arriva da Palermo – una delle tre città, insieme a Genova e Napoli, in cui secondo Tridico ci sarebbero state lamentele – dove i casi sono diversi. Storie differenti tra loro, da raccontare tutte dietro un nome di fantasia, ma che ruotano attorno allo stesso concetto: il reddito di cittadinanza, così com’è stato concepito, non basta. «Nella card abbiamo trovato 54 euro, che cosa dovremmo farci?», chiede Sara. A casa sono in tre: lei, il marito e un figlio poco più che ventenne. Ad avere un’occupazione è solo il coniuge, uno stipendio di poco più di 800 euro che ha dato diritto a un’integrazione minima del reddito. Praticamente poco più di una pizza e una birra a settimana. «Non è questo l’aiuto di cui abbiamo bisogno. Mio figlio ha deciso di non usare la card perché – prosegue la donna – proverà a cercare un lavoro per l’estate. Fosse anche in nero. Non vuole rischiare di essere accusato di volere truffare lo Stato». L’intento dunque è quello di rinunciare ufficialmente al beneficio: «Ci hanno detto che da giugno daranno i moduli per farlo, li aspettiamo», conclude.
A trovare posto nella platea dei delusi è anche Giovanni. Cinquantasette anni, un passato come artigiano. Finché, complice la crisi, ha dovuto chiudere la bottega. «Lavora soltanto mia moglie – racconta -. Lei è una precaria storica, guadagna circa 800 euro al mese. Il nostro reddito di cittadinanza? Si aggira sui 90 euro». Giovanni ammette di avere valutato la possibilità di rinunciare al contributo dell’Inps, ma poi ha deciso di non farlo. Non tanto per i soldi in sé – «mi chiedo se realmente il governo pensi che con 90 euro si sconfigga la povertà» – quanto per la promessa di ricevere offerte di lavoro. L’altro pilastro portante del progetto del M5s che però non partirà prima dell’estate. «La speranza di trovare un lavoro c’è, ma più forti sono le perplessità – prosegue Giovanni -. Ho letto che, come incentivo, verrà girato alle imprese l’importo che veniva erogato al lavoratore come reddito di cittadinanza. Ora mi chiedo: chi mi assumerà avendo la possibilità di scegliere magari un single che porterà con sé una dote di 500 euro mensili?».
Infine c’è il caso di chi, nel rapporto costi-benefici, non considera conveniente il sistema messo su dal governo. «Nella mia famiglia lavoro soltanto io, mia moglie è disoccupata – racconta Giulio, 39 anni -. Abbiamo due figli piccoli e fino al mese scorso abbiamo percepito il bonus bebè. Ci dicono che forse è per questo che come reddito di cittadinanza ci sono stati dati appena 40 euro. Aspettiamo di vedere se le cose cambieranno, altrimenti – aggiunge – cercheremo di disdire tutto». A incidere nel caso di Giulio c’è anche un altro fattore. L’uomo chiama in causa un aspetto del patto che i beneficiari sono chiamati a fare con lo Stato: svolgere lavori socialmente utili, nell’attesa di trovare un’occupazione: «Sarà obbligatorio fare otto ore settimanali di servizi sociali. Con due figli piccoli da accudire e per 40 euro mensili, mia moglie – conclude – preferisce rimanere a casa».
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