Raul Montanari & la psicologia del thriller

Adriano, il protagonista del suo romanzo, non si definisce un vedovo, o quanto meno non sembra mai riconoscersi come tale. Può chiarirci il significato di questa scelta?
L’osservazione che fai è interessante. Non mi è venuto naturale adoperare questo termine perché c’è l’incertezza, dall’inizio alla fine del romanzo, se Adriano abbia ucciso o meno sua moglie. Se, sbilanciandosi, si definisse un vedovo ciò influenzerebbe in modo inevitabile il lettore e la suspense creata verrebbe giù irrimediabilmente: non credo che un uxoricida possa ritenersi un vedovo, probabilmente lascerebbe perdere il discorso senza qualificare la propria situazione. Devo dire comunque, che questo tipo di ragionamento lo faccio ora perché mi stimoli con la tua domanda; io non ho usato quella parola per istinto, forse proprio perché mi sembrava avesse un effetto oltremodo rivelatore.
 
Quello del titolo è un dio sadico o impotente dinanzi a ciò che noi
definiamo “la sfera del libero arbitrio”?

Non è un Dio sadico perché in quel caso si tratterebbe di un Dio troppo
personale, e l’idea stessa di “Dio personale” è, a mio avviso, spaventosa, crudele. È un Dio che sta nello sguardo umano, che è lì perché invocato dall’uomo. Il fatto che esista o meno, è una cosa su cui non mi posso pronunciare per quanto la logica ci insegni che più la scienza ci porta avanti, più noi possiamo, almeno a livello teorico, farne a meno. Nella concezione classica, si è sempre immaginato che Dio si nascondesse in un luogo lontano, in genere sopraelevato come l’olimpo o il paradiso, in quella più moderna, invece, lo si sentiva lontano ma anche dentro, nell’anima. Ora la scienza si sta compenetrando in queste direzioni e di Dio non ne ha trovato traccia. Io in questi casi uso la metafora del grande topo: se qualcuno ti dicesse che nell’oceano esiste un topo gigante e che quel topo è Dio, tu come dovresti rispondergli? Come dimostrare che le cose NON stanno così? A uno che dice una cosa del genere dovresti dare uguali chance rispetto a duemila anni di tradizione del cristianesimo; che tu ci voglia credere o no, sarebbe una cosa verso la quale ci si può porgere solo in una prospettiva di fede e non in una compiutamente razionale. Stando alla nostra tradizione Dio è il nome che diamo a tutte quelle alterità che non siano strettamente riconducibili ad un qualcosa di riconoscibile, esplorabile, indagabile e dimostrabile.

Tornando al romanzo, c’è una buffa prova dell’esistenza di Dio, molto borghesiana, lo definirei un piccolo cortocircuito: è come se il protagonista si rivolgesse direttamente al lettore invitandolo ad
entrare, a “mettersi” in un libro-destino già scritto, non dall’autore bensì da Dio stesso. Per il resto la presenza di Dio è devastante: basti
pensare all’ossessione di Adriano per le chiese o alla scena, cruciale,
della morte della madre di Carlo, dove c’è un gioco di rimbalzi tra lui ed un prete che ha addirittura una crisi di coscienza davanti al capezzale
della donna moribonda; così, mentre quest’ultimo rinnega a gran voce
l’esistenza di Dio, Carlo invece, che non era mai stato credente, afferra le mani della madre rincuorandola, dicendole “Dio c’è, Dio c’è”.
Da un lato c’è la straziante prova di sincerità di chi non si sente più
ministro di niente, dall’altro invece, l’estremo gesto di pietà di un ateo
dinanzi alla morte. 
 
Una strana  condizione quella dell’ateo: sempre alla ricerca interiore di qualcosa, non trova?
Guarda, io ho smesso di credere in Dio all’età di quattordici anni, e da allora non faccio altro che pensarci. Ho il sospetto che credere sia
anche un ottimo espediente per non rifletterci su. Nessuno pensa a Dio
quanto gli atei; naturalmente non mi riferisco al libertino volgare, ma a
quello illuminista come Sade o Sartre, che osserva e che si interroga
costantemente partendo da una teologia negativa. 

In “L’esistenza di dio” c’è un’interessante analogia con un altro suo romanzo, “Dio ti sta sognando” (1998, Marcos y Marcos): entrambi i protagonisti sono relegati all’interno di un ambiente, il carcere nel primo caso, l’ospedale nel secondo. La costrizione è un elemento frequente nei suoi libri?
Anche questa è una bella osservazione. Di solito faccio entrare il
protagonista in rapporto con un mondo che ha delle regole ben strutturate, ponendolo davanti a un bivio: può decidere se impararle o se infrangerle. Altrimenti utilizzo il topos classico del ritorno, come in “L’esistenza di dio” o in “Chiudi gli occhi” (2004, Baldini Castoldi Dalai). Tornando alla tua domanda, l’elemento costante, più che la costrizione, è l’alterazione del rapporto tra l’io e il mondo. Nel caso di “Dio ti sta sognando” questa era ottenuta attraverso la condizione della malattia ma anche dalla potenza quasi sciamanica con la quale il commissario morente è in grado di interpretare gli indizi dell’ultimo caso della sua vita, in chiave assolutamente analogica. Questo libro voleva essere la seconda parte di un attacco fatto al genere giallo; la prima parte era naturalmente “Sei tu l’assassino” (1997, Marcos y Marcos) che sfondava la famosa quarta parete perché l’assassino era il lettore stesso. In “Dio ti sta sognando” l’attacco al genere avveniva su due fronti: il primo, come ti ho poc’anzi accennato, è rappresentato dal fatto che il commissario, intossicato dalla morfina, deve risolvere il caso attraverso le allucinazioni, quindi non in modo razionale; il secondo invece, riguarda la morte violenta che normalmente nel genere criminale-poliziesco è al centro dell’attenzione narrativa, mentre qui viene lasciata letteralmente fuori scena, nel senso proprio che è “oscena”, ed è sostituita dall’orrore per quella naturale, fatta di tubicini e di sofferenza sedata. In linea di massima in tutti gli altri miei romanzi c’è sempre un rapporto alterato con l’ambiente: in “Il buio divora la strada” (2002, Baldini Castoldi Dalai editore) per esempio, c’è l’obbligo del ragazzo di seguire delle tracce che dovrebbero portarlo al padre; in “La perfezione” (1994, Feltrinelli) invece, l’alterazione è tutta centrata sul personaggio dello sfregiato e sul rapporto che questi ha con il mondo dal momento in cui il suo volto è stato deturpato da un incidente.

Nei suoi romanzi accanto ad un grande protagonista – che odieremo o ameremo, a seconda dei casi – c’è una straordinaria galleria di gregari. Può dirci qualcosa su Bruno e Rigoletto, “i cattivi” (molto alla Abel Ferrara) del suo “L’esistenza di dio”?
Si tratta di due epifanie del male, opposte. La storia della narrativa ci
insegna che l’unica cosa che interessa è il conflitto, il contrasto.
All’inizio Bruno lo avevo addirittura immaginato basso, proprio per distinguerlo ancor più da Rigoletto. Poi la sua voce bassa, a tratti inintelligibile, e la sua posa da camorrista mi hanno fatto venire in mente un attore, Christopher Walken, e il personaggio ha preso immediatamente quella direzione. La definizione più divertente di Bruno – che è in assoluto il mio personaggio preferito – l’ha data una mia amica che lo ha descritto come “un figlio di papà”. Avrai notato che la figura del padre pur mai apparendo è così forte da formare un triangolo con gli altri due personaggi, condizionando l’agire di Bruno in qualsivoglia sua attività o affare, come avviene per esempio nella scena finale. Dapprima a questo padre avevo dato un nome, Costante, e lo avevo inserito all’interno del romanzo; in seguito, seguendo l’insegnamento di Hemingway, “togli il più possibile”, ho deciso di lasciarlo fuori rendendolo, paradossalmente, più visibile. Per quanto riguarda il rapporto che Bruno vive con Adriano, questo rispetta in pieno la regola del noir, ovvero raccontare cose comuni in una forma ingigantita. Il loro è un problema comunissimo: si tratta di due persone che vorrebbero volersi bene ma non possono perché sono fatti per farsi del male, un po’ come la rana e lo scorpione. Per quanto riguarda Rigoletto, invece, si tratta di un personaggio “finto”, perché mentre scrivevo non lo avevo connesso a nessun modello reale, se non a un ricordo, molto scuro, depositato in fondo alla memoria. Su questa immagine, un viso duro e due occhi bianchi con le pupille visibili, ho costruito il personaggio di Rigoletto. Una cosa veramente buffa è accaduta recentemente dopo una puntata della trasmissione “Tutti i colori del giallo”, quando Luca Crovi, a microfoni spenti, mi ha chiesto se Rigoletto esisteva davvero, visto che il personaggio lo aveva realmente lasciato sgomento. Appena lo ha detto mi sono reso conto di chi fosse Rigoletto: ero io. Mi è venuta in mente una fotografia scattata Caravaggio (Bergamo) dopo una serata dello spettacolo di poesia in musica “Covers”. La fotografa, molto carina ma non molto brava, ci aveva preso un pochino dal basso mentre io, Aldo Nove e Tiziano Scarpa ricevevamo i pochi, peraltro, applausi del pubblico – visto che la serata era andata malissimo. Lo sfondo della foto è scuro; la mia mole sembra sovrastare non solo quella di Aldo Nove, ma anche quella di Tiziano Scarpa che è alto quanto me; il mio volto è visibilmente teso – avevamo anche litigato quella sera –  e gli occhi accecati dal flash, non sono come normalmente capita rossi ma bianchi, con le pupille da gatto. Ecco da dove viene Rigoletto. 

Alcune scene del romanzo sono ambientate in carcere; le descrizioni sono frutto del suo immaginario o c’è un lavoro d’indagine dietro?
Ho fatto un lavoro con Daria Bignardi che a dire la verità non è neppure menzionata nei ringraziamenti, non solo perché abbiamo fatto molte cose insieme ma anche perché in genere cerco di non ringraziare più le persone che mi sono vicine. Lei ha lavorato tantissimo a San Vittore e a suo tempo ha aperto nella rivista di cui era direttrice, “Donna”, una rubrica dove scrivevano dei carcerati. È stata una fonte di prima mano, che mi ha fornito una serie di indicazioni sulla vita carceraria, perfino particolari banali come quello del sole che entra nelle celle a discapito, anche, di una certa idea filmica che abbiamo delle carceri. Le cose che ho descritto sono assolutamente verosimili e rientrano nella nobile esigenza aristotelica della poetica come regno “di ciò che può accadere” e non di “ciò che è accaduto specificamente” (competenza della storia). Io comunque non sono un grande cultore di narrativa carceraria, non a caso in “L’esistenza di dio” l’intero soggiorno di Adriano a San Vittore è sintetizzato in due soli flashback. Il primo è più un ragionamento da parte di Adriano su cosa sia realmente la vita carceraria; il secondo invece, è l’incontro drammatico con Bruno. 
 
Lei è uno dei traduttori più rinomati in Italia, perdoni la banalità ma “tradurre” l’esistenza umana è più difficile?
È davvero buffo perché questa domanda mi è stata fatta solo due volte. La seconda è questa che mi stai facendo tu, la prima è avvenuta meno di ventiquattro ore fa, dopo un dibattito pubblico con Genna e Biondillo. Tradurre dalla pagina è un lavoro estremamente difficile ma non comporta quel grado di dolore proprio della scrittura. La traduzione letteraria potrebbe essere definita come la forma più intima che può assumere l’atto della lettura. Leonard Bernstein ha detto che ci sono diversi gradi di godimento della musica: quello più superficiale consiste nel mettere su un disco; quello successivo è assistere ad un concerto; ancora meglio è suonare uno strumento; il massimo è dirigere un’orchestra perché in quel modo dai un’impronta a un’interpretazione collettiva. La stessa regola vale anche per il rapporto col libro: il livello d’approccio più superficiale con un testo è leggerlo tradotto; quello intermedio è leggerlo in lingua originale; quello superiore è appunto tradurlo. La scrittura in prima persona invece, come ti ho poc’anzi detto, implica oltre alla fatica, una certa sofferenza. 

Vittorio Bertone

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