Qui Catania/ Mutu, un killer e un prete a confronto

Rosario, killer a servizio della mafia, e Salvo, prete a servizio della Chiesa. Sono i due fratelli protagonisti di “Mutu”, l’opera teatrale, scritta da Aldo Rapè, che ne è anche interprete insieme con Nicola Vero, e diretta dal regista Lauro Versari, in scena nei locali della scuola di Lucia Sardo, in via Plebiscito 23 a Catania, l’1 e il 2 marzo.

Il silenzio e i riti che accomunano due mondi apparentemente contrapposti, quello mafioso e quello religioso, sono i mezzi usati dall’autore e attore siciliano Rapè per portare in scena il dramma della solitudine e della mancanza di comunicazione che segna la vita di due fratelli, e della loro terra, la Sicilia.

Lo spettacolo, prodotto da PrimaQuinta di Bari, è realizzato in un insolito spazio scenico, una stanza di circa 50 metri quadrati, che permette la partecipazione di un pubblico di 35 persone a sera. La rappresentazione entra perciò dentro le case e dà modo allo spettatore di spiare la vita dei due personaggi e di condividere con loro uno spazio angusto che ne evidenzia lo stato d’animo.

In occasione della messa in scena dell’opera nella Casa Stesicorea di Antonio Presti lo scorso 26 febbraio, Step1 ha incontrato e intervistato i due protagonisti.

Aldo, “Mutu” arriva dopo altre opere di denuncia in cui parli di mafia e omertà, per esempio “W la mafia”. Come mai sei tornato sull’argomento e com’è nato il soggetto di ‘Mutu’?
A. Rapè: «È nato da una mia riflessione sul ruolo della spiritualità, su quello che è vero e su quello che è falso e che facciamo solo per rito. Noi in Sicilia i riti li conosciamo bene: religiosi e mafiosi. E la curiosità mi è nata più che altro in seguito agli ultimi arresti dei grandi boss di mafia, dal fatto che venivano trovati in possesso di santini e di bibbie sottolineate. Mi ha fatto pensare che nella mafia c’è una forma di religiosità seppur distorta. E a questo si è aggiunta – e penso che dal testo venga fuori – la mia visione critica dell’istituzione Chiesa. Allora, ho voluto mettere a confronto Chiesa e mafia, perché alla fine sono due istituzioni – la mafia per noi siciliani purtroppo è un’istituzione – che basano entrambe le loro leggi sul silenzio e sulla ritualità. Poi ho pensato che sarebbe stato curioso trasferire questo confronto su due fratelli, uno prete e l’altro mafioso. Così è nata l’idea di base, però in realtà, e credo che lo spettatore lo percepisca, nello sviluppo della storia mafia e Chiesa sono solo dei pretesti per parlare della situazione di questi due poveri cristi a confronto».

Il vero tema quindi è la loro solitudine, la loro voglia di fuggire ma nello stesso tempo di tornare e riscattarsi?
A. Rapè: «Sì, la solitudine e la mancanza di comunicazione odierna che c’è anche tra fratelli. La loro difficoltà di comunicare deriva dalle loro scelte, ma anche dal fatto che sono dieci anni che non si vedono, e quindi si devono un po’ studiare e all’inizio è quasi come una partita a scacchi. La loro vicenda ci fa capire che da soli a volte non si riesce a uscire da determinate situazioni e che magari, insieme, uno può tirare fuori l’altro (che è poi quello che fa don Salvo) da gabbie che tutti noi ci costruiamo, al di là del mestiere che facciamo. A volte siamo forti e ne usciamo da soli, altre bisogna essere trascinati da qualcuno».

Nicola, il tuo personaggio, padre Salvo, è inizialmente tirato, silenzioso, chiuso in una tunica nera che sembra estremamente pesante, visto il corpo molto magro che la sostiene, ma poi è lui che fa venire fuori il tormento del fratello, il personaggio di Aldo, che all’inizio è invece più espansivo e informale, aiutato anche dall’alcol. Come ti sei preparato per interpretare questo ruolo? E poi, una curiosità, sei veramente così magro per esigenze di copione?
N. Vero: «No, la magrezza non è stata studiata, anzi a dire il vero sto mangiando veramente tanto visto che in Sicilia la cucina è davvero fantastica. Per costruire il personaggio di padre Salvo ho avuto qualche difficoltà iniziale, dovuta al rischio di entrare nel cliché della figura del prete, di confrontarmi con il preconcetto che a volte abbiamo quando si parla dell’istituzione Chiesa, che ci fa dire “ah, ma voi vivete nel lusso, voi non sapete che fare, voi state rinchiusi dietro a un portone”. Correvo il rischio, come attore, che il mio pregiudizio nei confronti del personaggio fosse troppo alto. Però, poi l’ho superato dando un’umanità a questo prete, considerandolo come un uomo che fa una scelta per necessità e non per volontà, guardando a quello che c’è dietro e dentro a quella tunica, a quella gabbia, alla bellezza delle sue parole. In scena il personaggio compie un percorso che gli fa riscoprire la bellezza della sua anima, di quello che dice. All’inizio parla per concetti sentiti in chiesa, ad ogni omelia in cui si dicono sempre le stesse cose. A un certo punto, invece, cambia linguaggio con il fratello, perché l’unico modo per tirare fuori da un mafioso la sua anima è parlare da fratelli, quindi da uomini, spinti però da qualcosa che va oltre l’essere uomini, da un lato spirituale che deriva dall’amore, nel senso più bello dell’amore, che è quello che si può avere tra fratelli».

Nel confronto tra i due fratelli il contrasto tra i silenzi e le urla è molto evidente. Perché?
A. Rapè: «È chiaramente una volontà di messa in scena. Il confronto tra i due è così conflittuale e forte, che viene evidenziato ancora di più nella distinzione tra una prima parte lenta, tranquilla, fatta di silenzi e una seconda urlata, spezzata, più viscerale rispetto alla prima. È un conflitto che già nel testo esisteva, ma che è stato esaltato dalla regia di Lauro Versari anche attraverso i movimenti dei personaggi, i loro costumi. Abbiamo di fronte due persone veramente contrapposte, uno vestito in modo rigido, l’altro in maniera estremamente informale; il mio modo di parlare è lasciato andare, mentre quello di Nicola è contenuto, puntuale, perfetto: tutto è il risultato della volontà del regista che ha curato la messa in scena».

A proposito, perché avete scelto questa messa in scena originale fuori dagli spazi convenzionali del teatro?
A. Rapè: «Originale e soprattutto direi poco costosa. Quindi vogliamo dire che non abbiamo soldi e che dobbiamo lavorare così (ride, ndA). No, la nostra è una denuncia nel senso che crediamo che, ed è il messaggio che stiamo portando avanti, nel teatro alle volte bastano veramente pochi oggetti per portare in scena qualcosa. Poi, per carità, se hai la possibilità di farlo porti anche le grandi cose, però in questo caso c’era anche un’altra volontà, che era quella di portare lo spettacolo nelle case, quindi di necessità virtù: piccoli spazi, piccola scenografia. Minimale, ma sicuramente più indicata».

E com’è nata la collaborazione con Antonio Presti, che vi ha ospitato nella sua Casa d’arte Stesicorea, e Lucia Sardo, che vi accoglie nei locali della sua scuola?
N. Vero: «Aldo è venuto a Catania per parlare con loro. Per noi erano due personaggi inarrivabili: Lucia, la grande attrice, e Antonio, che qui a Catania con tutte le sue bellissime iniziative sta facendo il ‘delirio’. Ci siamo detti “proviamo e vediamo come va”. Abbiamo presentato la nostra proposta e loro hanno subito accettato. Hanno visto in quest’opera qualcosa di diverso e di bello».

A. Rapè: «Sono andato con la pistola di scena … No, sono stati davvero molto gentili».

Quali sono i vostri progetti futuri?
A. Rapé: «Mutu due, che è la resurrezione del… no, scherzo. Abbiamo un nuovo cortometraggio, che gireremo in Sicilia a giugno sul tema dell’immigrazione, e un nuovo lavoro che è in fase di scrittura, sempre legato ai temi della legalità e della religiosità distorta. Lo stiamo elaborando».

Un’ultima curiosità, perché la Tosca come colonna sonora di tutto lo spettacolo?
N. Vero: «È una scelta di Versari. A livello tematico è un’opera molto vicina al nostro spettacolo. Poi va incontro all’idea registica che tutto si sviluppa in un tempo prestabilito, cioè un’ora, che è la durata del secondo atto della Tosca. E quindi anche i nostri tempi, a livello di regia, sono gestiti senza artifici: alziamo il volume dello stereo in scena e siamo precisi. Il che rende tutto ancora più verosimile».

Agata Pasqualino

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