«Non fare di me un idolo mi brucerò, se divento un megafono mi incepperò». Chissà se Pier Paolo Pasolini si sarebbe trovato d’accordo coi versi salmodiati di Giovanni Lindo Ferretti. Da tempo l’intellettuale friulano è stato riscoperto nei suoi messaggi profetici, specie quelli lanciati sulla prima pagina del Corriere della Sera tra il ’74 e il ’75 e poi raccolti negli Scritti corsari. E da tempo Pasolini viene associato alla musica: prima Gaber, ora De André.Ispirato dall’album dell’artista genovese Le nuvole e dalle visioni apocalittiche e visionarie di Pasolini, il regista e scrittore Giorgio Gallione mette in scena Quello che non ho, che sarà al teatro Biondo fino al 18 marzo.
Protagonista dello spettacolo – a metà tra impegno civile e musica – è Neri Marcorè. Il noto attore di tv e teatro ha intrapreso da una manciata di anni un percorso all’interno della formula teatro-canzone. Anche qui i monologhi di Marcorè si alternano alle canzoni di De André, ben arrangiate da Paolo Silvestri e ottimamente suonate da tre giovani e virtuosi cantanti-musicisti (Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini). Lo stesso Marcorè, poi, dà prova di essere un discreto chitarrista, anche se nel timbro vocale a volte tende a rassomigliare eccessivamente all’originale genovese.
Ecco, se Pasolini necessita proprio di un collegamento musicale quello è certamente Ferretti, molto più simile nei toni e nelle invettive antimoderniste. Non certo De André, che pure dedicò allo scrittore e regista friulano una canzone, Una storia sbagliata, che non poteva non essere riproposta. Nella prima parte dello spettacolo Marcorè cita più stralci della produzione giornalistica di Pasolini. E lo fa con tono misurato e serio, forse troppo. A sentirlo sembra che Pasolini si pigliasse dannatamente sul serio, che fosse soltanto una lugubre Cassandra del boom economico. Infatti qui non si ride mai. La seconda metà di Quello che non ho si apre invece a qualche leggero cambio di rotta: mantiene la condanna sugli sprechi e sugli orrori del mondo ma diventa nei toni più surreale (la favola sul regno Emmenthal dove sono rimasti solo i topi deve moltissimo alla fantasia di Stefano Benni), più comica (quindi più liberatoria) e più poetica. Peccato non aver incentrato tutto l’allestimento su queste linee.
Sembra che lo spettacolo avrebbe dovuto intitolarsi in un primo momento La rabbia, come l’omonimo film di Pasolini del 1963. Forse il titolo più giusto sarebbe stato L’indignazione. Marcorè collega ogni canzone di De André con interventi parlati, a volte mere cronache giornalistiche intrise di dati e riferimenti. E che nell’episodio dell’interrogazione parlamentare su Clarabella sfiora il qualunquismo. Non usa lo storytelling, Marcorè, (per fortuna) ma qualche contaminazione con le storie e con la narrazione teatrale avrebbe certamente aiutato. Aiuta invece molto la scenografia, tra i punti più riusciti dello spettacolo, all’apparenza essenziale ma che ben rende un’atmosfera stropicciata, come se fosse di carta velina colorata, con tubi al neon che scendono dall’alto.
Quello che non ho è uno spettacolo ben fatto e ben riuscito che, con qualche accorgimento, sarebbe potuto diventare memorabile. O forse più semplicemente è vero che i maestri del teatro canzone, vale a dire Giorgio Gaber e Sandro Luporini, rimangono insuperabili anche se si provano a mettere insieme due pesi massimi come De André e Pasolini?
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