“Quei faccioni mal fotografati”

Il nostro «Election Horror Picture Show» non è solo un’occasione per sorridere. Può essere anche uno spunto per riflettere sui messaggi e sui linguaggi della propaganda elettorale di questi giorni. Per questo abbiamo intervistato il professor Salvo Scibilia, pubblicitario di grande esperienza (è stato copywriter e direttore creativo di Young & Rubicam, e prima ancora in Ogilvy & Mather e Publicis), e docente di Teoria e tecnica dei mezzi di comunicazione di massa presso l’Università di Catania.

 

Professore, cosa pensa di questa invasione di manifesti elettorali in giro per la città?
Il fatto è che la gente ha una visione stupidamente taumaturgica della propria immagine. Si pensa che siccome si è visibili, allora chissà cosa dovrebbe succedere. In realtà non succede proprio nulla, perché accadono due cose: o il nome evoca una faccia chiaramente riconoscibile (se si candida Luciano Granozzi io so chi è e non c’è bisogno di vedere la faccia su un manifesto), oppure, se una persona non ha un fascino tale che parla da solo, la faccia non aggiunge niente, anzi peggiora le cose.

 

E sotto il profilo tecnico?
Sono foto veramente di merda. Con le tecnologie di oggi sono foto davvero cialtrone per quanto riguarda l’esecuzione. Queste sono foto scattate dal cugino con la macchina fotografica da tre soldi e con le luci sbagliate.

 

Foto casalinghe, insomma.
Sì esatto, e non ce n’è proprio motivo. Sono peggiori delle riprese del matrimonio. Ma la parte più grave è la parte copy.

 

Cioè la parte scritta dei manifesti.
Sì, la parte del messaggio, della promessa. Sono tutte scontate del tipo: “eleggetemi al Comune, qualcosa farò,” e rispondono ad un sistema d’attesa assolutamente codificato e prevedibile. Le logiche del mercato e della competizione imporrebbero invece la ricerca di una nota di esclusività del tipo: “ti prometto qualcosa che gli altri non ti promettono”.

 

Facciamo qualche esempio pratico?
“Borzì. L’amico di sempre”. Questo messaggio a chi si rivolge? A coloro che già hanno sperimentato la sua amicizia? Il messaggio qui è totalmente auto-referenziale: “Io sono amico dei miei amici”. Oppure “Tudisco (Drupi NdR). Un uomo fuori dal comune”. Questa fa ridere perché è assolutamente over-promise vendersi come persona straordinaria in un contesto del genere. O ancora “Borbone. Non fatemi sfigurare”. Questo è il classico catanese che considera gli elettori a livello familiare e dice loro: “non mi faciti fari malacumpassa”. Quindi il suo intento sarebbe fare bella figura lui, non preoccuparsi di fare qualcosa per gli altri. Poi c’è Siena con quel cagnetto in braccio e la promessa muscolare: “ringhierò per voi”. Effetto straniante, che fa venire in mente il celebre “Fuffi, mordilo!” di “Totò a Capri”. Ma la palma del peggior manifesto va data senza dubbio a “Petrina. Arrusti e mangia”.

 

Quali altri fattori contribuiscono a rendere grottesca questa marea montante di manifesti?
La scorrettezza dell’affissione selvaggia, ad esempio. Il messaggio assume rilevanza in base al contesto in cui appare. Non si può fare un’affissione su un cassonetto, mi dica lei com’è possibile. I candidati si sono resi conto che la comunicazione pubblicitaria è un fatto importante, ma siccome hanno la ‘selvaggitudine’, loro e chi glieli affigge (i manifesti NdR), questo diventa un problema. La massa degli elettori non ha la sensibilità di cogliere, come avete fatto voi, il paradosso di questa vicenda. Invece, proprio perché condivide gli stessi codici, non se ne rende conto ed, anzi, il fatto di apparire sul cassonetto dell’immondizia o scrivere “arrusti e mangia”, può essere visto positivamente. Ed è proprio questo che noi dovremmo chiederci: “Queste persone hanno una nozione del kitsch”? Forse, ma sicuramente è diversa dalla nostra. Quello che io definisco “codice della selvaggitudine” naturalmente impedisce a loro e ai loro elettori di percepire queste cose come kitsch. Anche Bossi quando dice “abbiamo i fucili caldi” risulta kitsch, ma lì siamo in un contesto più convenzionalizzato.

 

Un’ultima domanda: lei cosa avrebbe fatto al loro posto?
Prescindendo dall’efficacia del risultato, io avrei cercato qualche posizionamento, qualche promessa originale. Avrei evitato la ritualità bieca e triste di questi faccioni mal fotografati. Mi sarei inventato qualche titolone con una grossa promessa o una provocazione, anche linguistica. E poi chiaramente sarebbero stati necessari dei test a priori per verificare il consenso di determinate scelte. Di fatto il nodo focale è uno. Cos’è che un candidato dice in più o in meno rispetto ad un altro? Le regole della pubblicità dicono che quando si deve vendere qualcosa, sia esso un formaggino o un candidato, bisogna proporre una promessa che sia: rilevante, interessante per il consumatore, originale, comprensibile e memorabile. Quanti di quegli annunci elettorali hanno queste caratteristiche?

Daniele Giuseppe Bazzano

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