Quattro siciliani su dieci a rischio povertà Svimez: «Reddito di cittadinanza non rinviabile»

Più di quattro siciliani su dieci sono a rischio povertà. A lanciare l’allarme è l’associazione per lo Sviluppo industriale del Mezzogiorno (Svimez), nel nuovo rapporto sulla situazione economica al Sud. I dati, presentati ieri alla Camera dei deputati, fotografano una situazione particolarmente difficile per le regioni meridionali e spengono l’ottimismo del governo Renzi sulla ripresa dalla crisi.

Se il contesto generale del Mezzogiorno non è roseo, la Sicilia si attesta in fondo alla classifica. Tra i siciliani, infatti, il 41,8 per cento corre il rischio di diventare povero. Il dato riguarda l’indice di povertà relativa, ovvero la capacità di affrontare una spesa improvvisa di circa 700 euro. Una situazione che, secondo i ricercatori, in alcuni casi non è scongiurabile neanche se si è in possesso di un lavoro: «Il rischio di povertà è significativamente più alto soprattutto per le famiglie con minori, e per quelle giovani, con o senza figli. Più esposte al rischio anche le famiglie con un solo percettore di reddito», si legge nel rapporto. Dalle statistiche emerge inoltre che il 72 per cento dei siciliani guadagna il 40 per cento del reddito medio familiare a livello nazionale; rientrando, in altre parole, nelle due fasce più basse con un’entrata inferiore, nel migliore dei casi, a 1.500 euro al mese.

Davanti a una situazione del genere, secondo lo Svimez si rende necessario un intervento ben preciso della politica in direzione di misure di sostegno. Che però, a differenza di quanto si potrebbe credere, non significherebbe mero assistenzialismo: «In Italia, si legge nel rapporto, le preoccupazioni relative al costo delle misure anti povertà hanno sinora prevalso su ogni altra considerazione relativa all’eguaglianza – si legge nel documento -. D’altra parte è anche vero che la relazione positiva fra equità e crescita risulta verificata. Il compito del decisore pubblico dovrebbe essere scegliere o mediare tra le proposte in campo, nella consapevolezza però che una misura universalistica di sostegno al reddito non è più rinviabile».

Le ipotesi, in tal senso, sono diverse: si va dal reddito di inclusione sociale (Reis), che prevede l’erogazione di un sussidio di 400 euro mensili, al credito familiare (CF)-reddito di cittadinanza (RC), che prevede per le famiglie a rischio povertà un sussidio massimo di 780 euro. Dalle proiezioni diffuse dall’associazione, si evince che se le misure fossero state introdotte nel 2013, lo Stato avrebbe speso 8,4 miliardi per il Reis e 16,4 miliardi per il reddito di cittadinanza. Cifre che come detto, secondo lo Svimez, andrebbero spese: «Avere una società meno diseguale – commenta uno dei ricercatori Giuseppe Provenzano – significa crescere di più economicamente. A dirlo sono dati empirici, come nel caso delle nazioni nordeuropee che sono state più pronte a uscire dalla crisi».

Un altro aspetto molto interessante su cui il rapporto fa luce è il ruolo della scuola nella determinazione del futuro delle persone. A riguardo, però, la formazione nel Meridione delude le aspettative, in quanto incapace di trasformarsi in «ascensore sociale»: «Negli ultimi vent’anni il nostro Paese, e soprattutto il Sud, ha realizzato grandi progressi nel campo dell’istruzione – prosegue Provenzano -, ma da qualche tempo si corre il rischio di bruciare questi passi in avanti». Nello specifico, secondo il rapporto, «la scuola non sembra in grado di emancipare i ragazzi dalle origini sociali della famiglia». La mobilità sociale viene arrestata sin dai primi anni di istruzione: «Si continua a crescere come si nasce», si legge nel documento. 

Sulla riforma della Buona Scuola del governo Renzi il giudizio è sospeso: «Introduce elementi importanti, a cominciare dall’inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, ma il vero banco di prova, su cui si dovrà misurare l’efficacia o meno della riforma, è nella sua capacità di essere quello strumento di equità e di promozione sociale che la scuola non è, di colmare i divari quali-quantitativi tra aree territoriali e tipologie di scuole». A risentire della flessione dell’istruzioni, infine, sono anche le università che hanno visto un decremento delle iscrizioni: «Siamo passati dal 70 al 50 per cento dei diplomati – conclude Provenzano -. Il motivo? In un momento di crisi, non tutti accettano di laurearsi sapendo che le difficoltà di trovare lavoro saranno comunque numerose». 

Simone Olivelli

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