Quando Palermo era punk, gli scatti di Fabio Sgroi «Quel concerto al manicomio, i matti eravamo noi»

Deve essere stato difficile essere punk a Palermo negli anni ’80: la mattanza mafiosa dei corleonesi, la cappa democristiana che si succedeva ai vertici del Comune, le ville liberty sventrate dal sacco edilizio e il centro storico ancora malfamato e abbandonato. Ovunque poi i malacarne, a regnare incontrastati tra vicoli e quartieri popolari. Figurarsi come potevano essere accettati i giovani che, tra creste e borchie, manifestavano ribellione verso tutto e tutti, al ritmo forsennato delle canzoni che avevano l’intensità e la velocità di un pugno in faccia.

Atmosfere che tornano nel libro del fotografo palermitano Fabio Sgroi, intitolato Palermo 1984 – 1986, Early works. Scatti giovanili, ancora senza grossi nozioni fotografiche, che Sgroi faceva più per divertimento che per aspirazioni artistiche. E che però, in uno splendido bianco e nero, sintetizzano meravigliosamente il mood dell’epoca. Lo stesso fotografo, per dire, faceva parte di una band che si chiamava Mg 42/59: sì, proprio come l’omonima mitragliatrice Beretta. Altri tempi, insomma. Altro punk. Il volume verrà presentato l’1 giugno alle 19 ai Cantieri Culturali della Zisa. Insieme alle foto i testi evocativi del pittore Francesco De Grandi, tra echi di Philopat e di cyberpunk.

«Fotografare per me era a quei tempi una cosa ingenua e spontanea – racconta Sgroi -. Avevo vent’anni, c’era questa scena punk ma anche dark e gothic. I locali dove andare e suonare erano pochissimi. E noi non eravamo visti bene da nessuno, nè dai fricchettoni nè dalla gente del quartiere. Nel dicembre dell’85, intanto, cominciai ad appassionarmi anche al mondo della fotografia e cominciai a lavorare con Letizia Battaglia e il quotidiano L’Ora». 

Insieme i due organizzano un folle concerto punk, è proprio il caso di dirlo, all’ex ospedale psichiatrico Pisani. Gennaio ’86: a coloro che sono considerati matti si uniscono punk e skin provenienti da ogni parte della Sicilia. Teschi, pogo selvaggio, musica a tutto volume si mischiano in quella sede di ricovero e cura per le malattie mentali. Spunta pure qualche svastica, com’è nella tradizione punk: un po’ per provocazione (l’antesignano fu Sid Vicious coi Sex Pistols, che non era nazista ma voleva appunto scioccare) un po’ per convincimento politico. Un delirio, insomma. «Facevo la volontaria all’ospedale psichiatrico- racconta Letizia Battaglia – organizzando svariate attività. Mi venne in mente allora di fare questo fare concerto punk. Alla direzione non dissi di che cosa si trattava, e arrivarono queste frotte di ragazzi tutti abbigliati da punk. Era uno spettacolo meraviglioso. I malati mentali erano sbalorditi e dicevano “ma questi sono folli”. C’erano anche delle donne che suonavano e cantavano, all’epoca non era così usuale. Certo, anche ora un episodio del genere susciterebbe scandalo, e infatti la direzione si arrabbiò moltissimo, ma fu una festa».

A distanza di oltre 30 anni, cosa rimane allora? Le provocazioni e le ribellioni di pochi – perchè in fondo i punk a Palermo erano davvero pochi, come si può constatare dalle stesso foto di Sgroi dove i protagonisti degli scatti si ripetono – sono stati una scintilla che, come da buona tradizione punk, ha divampato rapida per spegnersi altrettanto rapidamente? O qualcosa è rimasto? «Non lo so – ammette il fotografo palermitano- . Ognuno di noi poi ha preso strade molto diverse. La reazione di oggi al libro in questo momento è molto positiva, a partire dalle stesse persone che ho fotografato. Quello che è venuto fuori è un racconto, che non è parallelo alle cose che intanto sono successe. Bisogna aprire la visione quando si parla di punk». 

Di ciò ne è convinto anche Francesco De Grandi, che con la propria scrittura aiuta ancor di più nel libro a trasmettere, più che il senso, le sensazioni legate a quel movimento e a quegli anni. Di qualche anno più giovane rispetto a Sgroi, il pittore palermitano è partito dalle passioni comuni. Descrivendo come se stesse dipingendo. «Stavo un po’ in disparte – dice – ma anche io mi insaponavo i capelli, certamente non in maniera per così dire scientifica. Mi feci da solo pure una maglietta con la scritta “democristiani di merda”.  Mi rendevo conto che eravamo di fronte una rivoluzione antiborghese, che eravamo di fronte a movimenti di controcultura. Io però ero un po’ diverso. Che so, ascoltavo anche De Andrè, magari a un punk ortodosso questa cosa faceva rabbrividire, all’epoca certe cose non andavano molto d’accordo. Ho seguito poi molto i percorsi dei Cccp e dei The Clash, che secondo me erano molto più punk dei Ramones».

Andrea Turco

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