Il film “Eyes wide shut”” (GB- USA, 1999), ultimo capolavoro di Stanley Kubrick, sceneggiato insieme a Frederic Raphael, non è una fedele trasposizione cinematografica del romanzo breve “Traumnovelle” (“Doppio sogno“, 1926) di Arthur Schnitzler. Il libro è infatti, per il regista, soltanto un pretesto, e il suo interesse continua ad essere quello che vien fuori dalle altre pellicole da lui firmate: il comportamento umano osservato da tutte le prospettive e in tutte le situazioni possibili, con una freddezza al limite dell’obiettività. La moralità e i suoi confini, i rapporti di classe, la percezione del corpo della donna, sono solo alcuni dei temi affrontati in questo film che sembra essere il più “politico” di Kubrick, sostenuto da quel moralismo laico, materialista, settecentesco.
La monotona e agiata vita borghese di una giovane coppia americana alla fine del ‘900 entra in crisi nel momento in cui tra i due si apre un dialogo che va oltre le convenzioni sociali. Desideri, gelosie, fantasie sessuali s’incrociano e interferiscono, e la frontiera tra realtà e sogno si sposta continuamente. E’ proprio questo il filo conduttore rintracciabile anche nel racconto di Schnitzler: il doppio che si muove dietro ogni vita, l’ombra che ci accompagna e che è sempre pronta a svelarsi e aprire un varco nella nostra esistenza.
Nell’opera di Schnitzler tuttavia si avverte di più la sensazione di un disfacimento dell’intera società (siamo infatti nella Vienna primo-novecentesca) con i suoi valori; i personaggi vengono usati per rivelare il carattere illusorio della realtà, e tra le vicende personali di Albertine e Fridoline e quelle epocali c’è un continuo incrocio: è l’epoca stessa che, andando in frantumi, trascina con sé le vite dei personaggi. E dell’imminenza della doppia catastrofe è emblema il sogno della moglie, che con il suo tradimento “virtuale” squarcia il velo di finta tranquillità e costringe crudamente se stessa e il marito a fare i conti con l’imprevisto, l’altrove da sé, distruggendo le maschere che per anni li avevano protetti dalla loro stessa natura.
Leggibili in chiave ironica, psicanalitica, politica, persino filosofica come suggerisce il titolo, le due differenti “versioni” della storia fondata su un intreccio di vicende oniriche contengono un epilogo pragmatico, non consolatorio; e proprio l’ultima frase della moglie, con cui si conclude il libro – ripresa del resto anche nel film utilizzando termini diversi – sembra racchiuderne il senso in poche parole: “Non si può ipotecare il futuro”. Una presa di coscienza tanto sofferta quanto realistica.
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