Dalla farmacia per prendere medicine per sé o per i familiari, al bicchierino coi ricci di mare da recuperare a Partanna-Mondello. E ancora gli abiti da ritirare in tintoria anche per l’ex prefetta di Palermo Francesca Cannizzo, la tappa nei negozi di alimentari per comprare qualcosa da portare poi a un’amica intima, quella dal calzolaio per farsi risuolare le scarpe o alla Rinascente per andare a comprare un costume per il figlio. Queste le faccende sbrigate dagli ex agenti di scorta di Silvana Saguto, sentiti oggi al processo che si celebra a Caltanissetta sulla presunta mala gestio dei beni confiscati da parte dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo e dei suoi presunti complici. «Succedeva che ci chiedesse di sbrigare incombenze che non rientravano nei nostri compiti istituzionali», lo ammette candidamente Giuseppe Fortuna, sovrintendente capo della polizia e membro del reparto scorte.
Con l’ex giudice lui ha lavorato per ben 15 anni, era il responsabile del servizio di tutela disposto per lei. «Ero il caposcorta. Organizzavo il servizio e gli spostamenti, organizzavo tutto in pratica per quanto riguardava la sua sicurezza». Ed è questo il motivo principale, la sicurezza della magistrata, che lo spingeva ad autorizzare e a sbrigare le famose «incombenze» di cui oggi lui e i suoi colleghi hanno riferito di fronte alla corte. «Io preferivo che la dottoressa uscisse il meno possibile per una questione di sicurezza. Capitava che mi diceva “ti dispiace comprare il pane?” e io lo facevo – racconta il teste -. Evitavamo certi spostamenti se non quelli indispensabili».
Si cercava, insomma, di esporla il meno possibile e di evitarle di sbrigare faccende che avrebbero potuto svolgere i suoi agenti di scorta al posto suo. Capitava addirittura che i favori riguardassero anche persone vicine alla magistrata e che queste salissero addirittura a bordo della vettura blindata fornita dal ministero degli Interni in sua assenza: dalla nuora, presa da casa e poi riaccompagnata, alle amiche più intime. «In quanto capo scorta ero io a decidere se fosse consentito o meno, e decidevo proprio nell’ottica della sicurezza e degli spostamenti, che cercavamo di ridurre al minimo. Contravvenendo alle disposizioni di servizio – ammette – ma perché è da moltissimi anni che si tollerano certi comportamenti delle persone scortate. Ripeto, la mia preoccupazione era solo garantire l’incolumità della persona sotto tutela e volevo esporla a meno rischi possibili. Si evitava di fare più giri insomma».
Un comportamento non proprio conforme a quanto stabilisce il servizio stesso, insomma: «Sarebbe vietato ma per ragioni di sicurezza lo consentivo, decidevo io assumendomi tutte le responsabilità». E le incombenze non sembravano mancare, anzi. «Erano tante le cose, capita che adesso qualcosa sfugge. Per noi non c’erano problemi praticamente, si evitava di farla uscire, questa era la cosa principale – spiega ancora il sovrintendente -. Disporre un servizio non è facile, c’è un lavoro dietro, molte cose le facevamo noi proprio per evitare che lei si esponesse».
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