Processo Panta Rei, in appello condanne per tre secoli Alla sbarra i boss di Porta Nuova, Villabate e Bagheria

«Gli dici che finisce la giornata e lo mandi a casa, altrimenti vengo e vi metto mani a tutti e due e vediamo se la dobbiamo finire…lo prendo e lo scanno qua». È da intercettazioni come questa che, nel 2015, si dà un colpo netto alla mafia di Porta Nuova, Villabate e Bagheria, mettendo a segno il blitz Panta Rei. Indagine complessa, che ha fatto emergere gli interessi di Cosa nostra per il mercato del pesce, oltre che per i cari vecchi business dalla droga al pizzo. Un settore remunerativo che aveva solleticato gli appetiti dei boss, che esercitavano un controllo capillare. Trentasette gli imputati a processo, di cui 32 condannati oggi a poco più di tre secoli di carcere in secondo grado dalla quarta sezione della corte d’appello, presieduta dal giudice Mario Fontana.

La pg Rita Fulantelli, al termine della sua requisitoria, aveva chiesto l’aumento delle pene per alcuni degli imputati e la condanna anche dei cinque assolti in primo grado, per una richiesta equivalente a 353 anni di carcere, contro invece i 268 inflitti in abbreviato dal gup Nicola Aiello. Il collegio presieduto dal giudice Fontana ha accolto in parte la richiesta, aumentando le pene a due imputati, parzialmente assolti in primo grado, assolto cinque persone (Massimo Monti, Giuseppe Di Giovanni, Gaetano Tinnirello, Giuseppe Bucaro e Mario Sciortino) e rimodulato le altre condanne, in modo da elevare le pene inflitte dal gup Nicola Aiello, col rito abbreviato: si passa così da 268 anni a 305. E quindi Giuseppe Ruggeri passa da tre a 12 anni e Salvatore David da quattro e 8 mesi a 11 anni. Una decisione emessa dopo quattro giorni di camera di consiglio

Una pena maggiore era stata chiesta anche per Teresa Marino, la donna boss che dopo l’arresto del marito Tommaso Lo Presti, u pacchiuni, nel 2014 aveva preso in mano le redini del mandamento di Porta Nuova. «Dettava le norme di comportamento anche alle altre donne di mafia. Spiegava loro che in pubblico non bisognava versare neanche una lacrima, esortandole a mostrarsi dignitosamente mafiose», dicevano di lei nel 2015 gli inquirenti. Una donna in grado di imporre con autorevolezza scelte e strategie a tutti gli affiliati. Anche nonostante i domiciliari cui è inizialmente costretta dopo un’indagine della guardia di finanza. Nella sua casa di via Cipressi, infatti, continuava a discutere degli affari del mandamento ricevendo capi e gregari. Almeno fino al blitz che l’ha portata dietro le sbarre.

Silvia Buffa

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