Vent’anni dopo quello che è passato alla storia come il mancato arresto di Bernardo Provenzano, i giudici di Palermo ribadiscono la sentenza di primo grado. Dopo 24 ore di camera di consiglio e due anni di udienze, sono stati assolti l’ex generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento per aver fatto saltare il blitz a Mezzojuso, nel Palermitano, che avrebbe portato all’arresto del boss – avvenuto poi nel 2006 – e per non aver proseguito le indagini a suo carico. Il tutto nonostante le indicazioni della fonte Oriente, il nome in codice del confidente Luigi Ilardo. Un’inchiesta per la quale, nel 2007, la stessa procura aveva chiesto l’archiviazione. Destino ribaltato dopo la richiesta della gip di Palermo Maria Pino di nuove indagini, che hanno portato i due vertici dell’Arma sulla sbarra degli imputati e all’assoluzione nel 2013, dopo cinque anni di processo in primo grado.
«Speriamo che questa sia la fine di quella che definirei una persecuzione da parte della Procura di Palermo – commenta il legale di Mori, Basilio Milio – Altri tre giudici si sono pronunciati e hanno avallato la decisione del primo grado. Credo sia un altro risultato importante. Ero fiducioso alla luce della serietà e della professionalità dimostrata dai giudici e delle testimonianze che non hanno aggiunto nulla rispetto a quanto appurato in primo grado». E proprio le deposizioni dei testimoni Francesco Randazzo, Mauro Olivieri, Pinuccio Calvi, Giuseppe Mangano, Roberto Longo e Sergio De Caprio saranno trasmesse alla Procura, che dovrà pronunciarsi su un’eventuale falsa testimonianza.
«Parte della Procura – continua Milio – ha iniziato a indagare su determinate vicende, a partire da quella relativa all’abitazione di Riina, dal 1997. Finito quel processo è iniziato questo e finito in primo grado questo è iniziato quello sulla presunta Trattativa Stato-mafia. Non so quali siano le sorti delle altre due indagini, ma sono da sempre fermamente convinto che il processo sulla Trattativa sia identico. Sono gli stessi testimoni, gli stessi fatti, almeno per la parte che riguarda gli ufficiali carabinieri. Credo che questa decisione sia anche importante per quello che ritengo un clone di questo procedimento».
In appello l’accusa – rappresentata dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio – aveva chiesto il carcere per entrambi: quattro anni e sei mesi per Mori e tre anni e sei mesi per Obinu. Escludendo per i due l’aggravante mafiosa e di aver deciso di fare saltare l’arresto per onorare la presunta trattativa Stato-mafia. Secondo la procura di Palermo, il lavoro di Mori sarebbe stato «una manipolazione costante del potere istituzionale e un’alterazione delle procedure legali». In un contesto che non avrebbe visto come protagonisti solo istituzioni e criminalità organizzata, ma anche movimenti indipendentisti, massoneria ed estrema destra. «Teorie fantasiose», secondo l’ex generale a capo del Reparto operativo speciale (Ros) dei carabinieri.
Nell’arco di un’indagine e due processi, lunghi e complessi, due sono i nomi chiave. Quello di Luigi Ilardo, l’infiltrato nella mafia che il 31 ottobre 1995 avrebbe potuto condurre i carabinieri nel covo di Provenzano. E quello del colonnello Michele Riccio, principale accusatore di Mori, che per anni ha ricostruito il ruolo di Ilardo, ucciso il 10 maggio 1996. «Quando Ilardo mi disse “Tra due giorni mi vedrò con Provenzano” informai subito Mori – raccontava il testimone – ma lui non mostrò nessun entusiasmo». Nemmeno davanti a un piano già studiato che prevedeva di sfruttare proprio quell’incontro. «Mi disse “Facciamo tutto noi con il capitano De Caprio“». Sul punto, Mori ha sempre respinto le accuse al mittente, rilanciando: «Riccio voleva usare l’arresto di Provenzano per fare carriera».
Nomi e circostanze che ritornano. Perché il processo che si chiude oggi nella sua fase di appello fa il paio con l’altro a carico di Mori, concluso nel 2006 con l’assoluzione e che ha riguardato la ritardata perquisizione del covo di un altro boss, Totò Riina. In quel caso, alla sbarra degli imputati, l’ex generale era in compagnia proprio di Sergio De Caprio, meglio noto come capitano Ultimo. Diciotto giorni dopo l’arresto di Riina, quando le forze dell’ordine sono tornate nel luogo della latitanza del boss, non c’erano più tracce da seguire. Il covo era stato svuotato. La procura sostenne di non avere mai saputo né autorizzato una sospensione della perquisizione. Mori e De Caprio parlarono invece di un equivoco nella comunicazione tra gli uffici. A chiedere l’assoluzione fu la stessa accusa, decisione confermata poi dai giudici.
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