«Luigi Ilardo aveva una grande stima di Giancarlo Caselli, ecco perché voleva collaborare con la Procura di Palermo e non a Caltanissetta». Parola del colonnello Michele Riccio. Un passato da ex capocentro della direzione investigativa antimafia di Genova e di componente del reparto operativo speciale dei Carabinieri. È lui l’uomo che ha custodito per quasi due anni rivelazioni, ansie e preoccupazioni di Luigi Ilardo, l’infiltrato nella mafia siciliana che aveva portato il 31 ottobre 1995 lo Stato fin dentro il covo di Bernardo Provenzano nelle campagne di Mezzojuso. Ascoltato come testimone, nel processo che si svolge a Catania sugli esecutori dell’omicidio di Ilardo il 10 maggio 1996, Riccio è il grande accusatore del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu. I due militari del Ros che vennero portati alla sbarra nel 2007 dalla Procura di Palermo con l’accusa di favoreggiamento a Cosa nostra per il mancato blitz. Dopo la doppia assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» con relativa trasmissione degli atti in Procura per verificare eventuali calunnie del testimone chiave, i magistrati palermitani hanno fatto ricorso in Appello e il processo è tutt’ora in corso.
«Quando Ilardo mi disse “Tra due giorni mi vedrò con Provenzano” informai subito Mori – racconta il testimone – ma lui non mostrò nessun entusiasmo». Il padrino di Cosa nostra poteva essere preso dieci anni prima con «un gruppo di uomini fidati e l’utilizzo di una cintura con trasmettitore gps che si attivava con i passanti». Un piano che non avrebbe entusiasmato il generale dei Carabinieri: «Mi disse “Facciamo tutto noi con il capitano De Caprio“. Bisognava mettere le basi per fare un nuovo incontro successivamente». Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, è il colonnello che nel 1993 arrestò Totò Riina, senza poi perquisirne il covo. Una vicenda al limite del paradossale finita al vaglio di un processo dove però sia Mori che Ultimo sono stati assolti anche in questo caso perché il fatto non costituisce reato.
Tinebra voleva gestire la collaborazione di Luigi Ilardo in maniera esclusiva
L’operato del generale Mori viene bollato più volte da Riccio come «inefficiente». A spiegare la motivazione è lo stesso testimone: «Dopo l’incontro tra Ilardo e Provenzano, Mori mi disse che non riuscivano a trovare il casolare nonostante tre sopralluoghi da parte mia e la semplicità della collocazione». In questo clima – nel marzo 1996 – inizia a prospettarsi la possibilità per l’infiltrato con il nome in codice Oriente di poter collaborare ufficialmente con la giustizia. Da questo momento in poi Riccio comincia ad elencare al pm Pasquale Pacifico, «una serie di fatti inquietanti» che coinvolgerebbero diversi pezzi dello Stato. Le attenzioni su una fonte che doveva essere tutelata nel massimo riserbo iniziano così ad allargarsi. Si passa dalle lettere anonime indirizzate alla Procura di Caltanissetta con al vertice Giovanni Tinebra in cui «Ilardo veniva indicato come soggetto da attenzionare» fino all’intransigenza con cui, secondo il racconto di Riccio, il magistrato voleva gestire la collaborazione dell’infiltrato «in maniera esclusiva» nonostante la volontà da parte sua di essere sentito a Palermo davanti a Giancarlo Caselli.
«La cosa non mi piaceva. Lui preferiva Palermo perché mi disse che voleva parlare anche dei rapporti di Giuseppe Madonia (boss di primo piano di Cosa nostra nissena, ndr) con uomini dei Tribunali di Caltanissetta e Catania ma anche di svariate vicende sulla vicinanza con esponenti politici “in particolare con Forza Italia e Berlusconi“, servizi segreti deviati ed altro». Una settimana prima dell’agguato in cui muore, Ilardo viene sentito a Roma negli uffici del Ros. In quell’occasione Riccio racconta il primo confronto con i magistrati e la presentazione con il generale Mori. «Non dimenticherò mai quel momento – spiega – appena glielo presentai, lui disse “Molti degli attentati, che sono stati attribuiti esclusivamente a Cosa nostra, in realtà hanno mandanti che risiedono nelle istituzioni”. Mori strinse i pugni e andò via senza dire nulla».
Niente è rimasto, almeno formalmente, del faccia a faccia con i magistrati. Ilardo rendeva le prima dichiarazioni in via informale con una sedia messa di fronte a Tinebra alla presenza dei pm Caselli e Maria Teresa Principato, l’unica a prendere appunti. «Si spostò verso Caselli e iniziò a raccontare per circa tre ore, fino a quando Tinebra decise di interrompere e rinviare a nuova audizione». A distanza di sette giorni un gruppo di fuoco ucciderà Ilardo sotto la sua casa di Catania tappandogli per sempre la bocca. Oltre al rapporto redatto successivamente da Riccio e consegnato ai magistrati Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, restano alcune registrazioni che il colonnello realizza dopo l’incontro romano. Lo stesso giorno dell’omicidio, il capitano del Ros Antonio Damiano «mi informò, gelandomi il sangue, che da Caltanissetta era uscita la storia di un nuovo collaboratore». Confessione, quest’ultima, registrata di nascosto proprio da Riccio.
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