La falsa notizia sul killer Maurizio Avola pronto a rivelare particolari sull’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa? «Appresa da un collega di cui mi fidavo e poi pubblicata su Il Giorno», ma mai verificata perché «non possedevo fonti investigative». Il caso della missiva di Vincenzo Santapaola che dal 41bis riesce a farsi pubblicare una lettera firmata su La Sicilia? «Una testimonianza importante». Il fatto che fosse detenuto al carcere duro quindi impossibilito a farlo? «Io di queste cose me ne frego. Per me bisogna pubblicare tutto». La lezione di giornalismo, al contrario, è quella che viene esposta in aula da Tony Zermo, chiamato come testimone di accusa e difesa nel processo a Mario Ciancio Sanfilippo. L’editore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Zermo, dopo Ciancio, è l’uomo simbolo del quotidiano di viale Odorico Da Pordenone. Ottantotto anni all’anagrafe di cui almeno sessanta passati a scrivere. Una storia che continua ancora oggi nonostante la pensione e la confisca di primo grado dell’impero Ciancio, La Sicilia compresa. «Ho sempre fatto l’inviato speciale – racconta – e adesso scrivo gratuitamente, anche per dare una mano ai ragazzi che sono in una situazione complicata». Per analizzare uno dei casi più spigolosi che lo hanno riguardato direttamente bisogna andare indietro fino al 1994. Sono i mesi in cui Avola, killer di fiducia di Aldo Ercolano e Nitto Santapaola, inizia a parlare con i magistrati. Clamorose rivelazione tra le quali, secondo il giornale etneo, si annoverano quelle sull’omicidio del generale Dalla Chiesa. La notizia, poi rivelatasi falsa, viene pubblicata su due quotidiani, La Sicilia e Il Giorno. Si tratta degli stessi testi, refusi compresi. Il primo però lo firma Salvatore Pernice, l’altro Tony Zermo. Lo scoop non riesce e dopo la pubblicazione la procura di Catania è costretta a convocare una conferenza stampa per smentire tutto, parlando esplicitamente di una strategia delle ombre mirata a delegittimare il pentito.
«Può essere che sia stato Pernice a darmi la notizia e io l’ho pubblicata su Il Giorno», racconta Zermo in aula. Ma perché il giornalista non verifica l’indiscrezione? «Non ho fonti investigative – spiega ai magistrati – Pernice è un collega e io mi fidavo». L’altro grande punto interrogativo è perché di quella notizia non si sia occupato Salvatore La Rocca, penna di punta per la cronaca giudiziaria. «Effettivamente mi sembrò strano ma non conosco i motivi», continua Zermo. In realtà, secondo quanto emerso in questi anni, La Rocca nel 1994 avrebbe cercato conferme alla notizia in tribunale senza però riuscirci. Particolare che gli fece storcere il naso in modo decisamente brusco, tanto da costargli l’allontanamento temporaneo, quando la notizia su Avola venne comunque pubblicata. Durante il processo Orsa Maggiore, nome del primo maxi blitz sui Santapaola, Zermo era già stato protagonista come testimone nella parte riguardante il delitto di Pippo Fava. In quella circostanza, come sottolineato in aula oggi dall’avvocato Goffredo D’Antona, Zermo aveva ammesso che in realtà dietro la firma di Pernice ci sarebbe sta la sua penna.
Poco prima, nel novembre 1993, c’è il caso della visita del boss Pippo Ercolano nella seda del quotidiano. In quell’occasione l’ormai defunto cognato di Nitto Santapaola si lamentò con il direttore Ciancio per un articolo pubblicato pochi giorni prima. Il pezzo, firmato dal redattore Concetto Mannisi, riguardava la denuncia da parte dei carabinieri nei confronti dei titolari di alcune aziende per violazioni di legge in materia di inquinamento. «Ho saputo di questa storia ma non ero presente – chiarisce Zermo – La stanza di Ciancio era sempre aperta ed entravano ministri e farabutti. Per accedere basta prendere l’ascensore, che è sempre libero, e premere per il secondo piano».
Dal 1993 al 2008 quando scoppia la polemica per la lettera di Vincenzo Santapaola pubblicata integralmente sul giornale di Ciancio. Il figlio del boss Nitto riesce nell’impresa di sbandierare la sua innocenza nonostante le limitazioni imposte dal carcere duro. Fatti poco dopo che porteranno il presidente dell’allora ufficio gip del tribunale, Rodolfo Materia, a smentire l’indiscrezione circa una possibile autorizzazione delle autorità. Oggi si scopre che dietro a quella pubblicazione, oltre agli avvocati di Santapaola, c’è stato proprio Zermo. «L’ho battuta a macchina perché il testo si leggeva male, riguardava un personaggio cittadino e io, nel giornale, sono stato tra i primi a dire di pubblicarla». «Un avvocato le porta una lettera di un detenuto al 41bis e lei la pubblica?», chiede il pm Antonino Fanara. Zermo risponde stizzito: «Io me ne frego di queste cose. Era una testimonianza importante perché si trattava del capo della mafia a Catania». Quel testo però non venne mai accompagnato da una introduzione per spiegare ai lettori chi era quel redattore per un giorno.
Durante l’udienza per Zermo, memoria storica del giornale per molto tempo organo monopolista, viene chiesto pure della mancata pubblicazione del necrologio per ricordare il trigesimo dell’omicidio del commissario di polizia Beppe Montana, ucciso da Cosa nostra in provincia di Palermo nel 1985. Poche righe in cui la famiglia lanciava una ferma condanna «alla mafia e a tutti i suoi anonimi sostenitori». Passaggio che però viene stoppato allo sportello dell’ufficio pubblicità dopo che un impiegato si sarebbe rivolto al condirettore Piero Corigliano (deceduto), mentre non è chiara la presenza o meno di Ciancio. Perché quel testo è stato respinto? «Ho sempre pensato che Corigliano ha sbagliato – sottolinea Zermo – Lo chiamavamo il re a cavallo e in quel caso si poteva andare incontro alla famiglia». Ma nel 2009, quando è la trasmissione Report a occuparsi di Ciancio e Catania con la puntata i Vicerè, Zermo sembra avere una posizione differente. Almeno è quello che traspare da un articolo di commento pubblicato su La Sicilia in cui dialoga con Pietrangelo Buttafuoco. Testo in cui si citano gli «alti mandanti» – frase mai riportato nel necrologio della famiglia Montana – aggiungendo le illazioni contenute nel testo. «Certamente – continua il testimone – quella sulla mancata pubblicazione è stata una strumentalizzazione utilizzata per colpire il giornale».
Un passaggio, breve ma significativo, spetta invece a Pippo Fava. Ucciso il 5 gennaio 1984 a due passi dallo stadio Cibali di Catania. Omicidio di mafia che La Sicilia, a firma Zermo, ha raccontato per diverso tempo come un fatto dai contorni poco chiari. Finendo pure per rimpiangere i cavalieri del lavoro, pallino di Fava quando firmava gli articoli sul connubio tra mafia, politica e imprenditoria. «Fava era mio amico (esternazione che ha già suscitato polemiche, ndr) – racconta Zermo – Per i suoi funerali mancavano tutti gli esponenti politici e delle istituzioni e io scrissi un articolo violentissimo contro queste assenze. Ciancio mi disse che non si poteva pubblicare e io andai via. Poi mi richiamò e mi disse che gli arrivò la notizia di un fonogramma (non è chiaro da chi, ndr) in cui si diceva di stare attenti perché quello non era un delitto di mafia».
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