Prevenire è meglio che punire

I continui delitti a opera di minorenni creano sempre più allarme sociale. Da un po’ di tempo a questa parte, le cronache ci hanno abituati a sentire parlare quotidianamente di atti di violenza che hanno dei ragazzi per protagonisti. Cronache che sono spesso seguite da dibattiti, riflessioni, pareri di esperti e prese di posizione da parte di politici.

Basta guardare cosa sta succedendo a Napoli. I recenti delitti hanno suscitato l’indignazione pubblica, i mass-media hanno dipinto la città come una Beirut italiana e sollecitato azioni repressive.

Ma la delinquenza non è certo nata ora. Era già da tempo che i cittadini napoletani avevano paura a girare di notte. Ora in quella città la delinquenza minorile è alle stelle e l’opinione pubblica richiede interventi esemplari. Come se la criminalità a Napoli fosse arrivata solo a settembre, quando la città venne insanguinata da una serie di delitti di mafia l’uno a poca distanza dall’altro, ai quali si stanno aggiungendo, ancora ora, delitti minorili agghiaccianti perché spesso scatenati da motivi di poco conto. Le vicende della città partenopea, unite al recente dilagare del fenomeno del “bullismo”, hanno fatto crescere l’attenzione della società italiana verso i reati dei giovani.

200 minorenni arrestati in un anno, 100 detenuti nel carcere minorile, 600 segnalati al Servizio Sociale per comportamenti devianti. Questi i numeri ufficiali della delinquenza minorile nella zona della Sicilia sud-orientale, e la metà circa vengono dalla città di Catania, emblema delle aree in cui più si concentra questo fenomeno. Un quarto dei minorenni denunciati in tutta Italia provengono da tre regioni (Puglia, Campania, soprattutto Sicilia).

I reati sono, nell’ordine di frequenza, furti, rapine, uso e spaccio di droghe, più ridotte le violenze sessuali.

I quartieri e le famiglie da cui questi ragazzi provengono sono sempre dello stesso tipo: periferie abbandonate o zone della città degradate, famiglie che non sono in grado di dare sostegno né economico né affettivo ai propri figli, inserimento in ambienti in cui la delinquenza è il modo per raggiungere una certa identità.

Ma quale attenzione? Quella di chi pensa che l’unico modo di educare è la repressione.

Diverso il tipo di attenzione che già da tredici anni la comunità “Prospettiva” rivolge ai minorenni provenienti da situazioni di degrado familiare.

Siamo andati a visitarla e a farci raccontare quale tipo di risposta viene data qui alle varie forme di emarginazione culturale e sociale da cui scaturisce il malessere giovanile, e spesso la devianza vera a propria.

Nata nel 1981 come comunità di recupero per tossicodipendenti e alcoolisti, la cooperativa “Prospettiva” ospita nella sua piccola villetta situata a San Giovanni Galermo 10 ragazzi: 8 affidati dal tribunale a causa del forte degrado delle famiglie o per loro stessa richiesta, 2 invece in attesa di giudizio penale.

“Cerchiamo di concordare un progetto educativo con ognuno di questi ragazzi, differenziandoci così dagli antichi collegi” ci spiegano Antonello Faraci e Glauco Lamartina, due degli educatori più esperti tra quelli che gestiscono la cooperativa. “Lì infatti tutti dovevano seguire tutti lo stesso programma di trattamento, anche a causa all’alto numero di ragazzi che queste strutture dovevano ospitare, mentre in comunità possono pianificare la loro vita in ogni minimo dettaglio, accuditi da operatori che si occupano di ognuno di essi”.

“Possono studiare nella scuola che desiderano”, continuano, “frequentare gli amici, uscire la sera e partire in viaggio (tutto spesato dalla comunità), come se appartenessero a una vera famiglia: la famiglia che a loro è mancata”.

“Li accompagniamo nel loro percorso fino alla maggiore età, e abbiamo anche attivato un progetto chiamato Gruppo Appartamento, destinato ai giovani dimessi dalla comunità che vengono sostenuti nell’inserimento lavorativo e sociale”.

Il centro svolge anche un ruolo sociale di aggregazione per i ragazzi del quartiere, disponendo di laboratori e campi sportivi aperti a tutti, e da qualche tempo è frequentato anche delle mamme dei bambini della zona. Un ‘crogiolo’ come dice il nome del centro: esempio unico, almeno dalle nostre parti, di integrazione educativa fra ragazzi ‘a rischio’ e la società circostante che dal rischio può aiutarli ad uscire.

“Purtroppo”, concludono i due educatori, “il nostro lavoro è reso difficile dalla carenza di fondi e di sostegno da parte degli Enti che per legge dovrebbero sostenere la prevenzione”.

Simone Di Nuovo

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