Presa a martellate, bruciata e sfregiata: la storia di Barbara «Oggi io aiuto gli altri, ma nessuno ha fatto niente per me»

«Non ti posso avere, meglio ucciderti». Mentre pensa di morire, è questa la frase che Barbara continua a sentire. Un ritornello drammatico che Giuseppe non smette di ripetere. Non riesce a dire altro, solo quello. È il 20 dicembre 2003, mancano pochi giorni a Natale e lui le telefona per chiederle di incontrarsi, «ti devo parlare», le dice. Lui ha 22 anni, una fidanzata, una famiglia perbene. Lei ne ha 29, un marito poliziotto, due figli, un terzo in arrivo. Lavorano per la stessa impresa edile, dove lei fa la ragioniera, condividendo l’ufficio con altre 18 persone tra uomini e donne. «Vorrà dirmi qualcosa inerente all’ufficio», suppone Barbara. Così si incontrano. Passa a prenderla con la sua auto davanti all’ex stabilimento della Coca cola. Poi imboccano la strada nuova che conduce all’autostrada, percorrono qualche metro lungo la statale e poi si fermano. Lui inizia a parlare delle vacanze di Natale, dei preparativi per trascorrerle in famiglia. Nulla di particolare, nulla di strano. Barbara scende dall’auto per chiamare il marito, al circo coi bambini, e avvisarlo che tarderà. E poi succede.

«All’improvviso sento un boato, un bruciore, non riuscivo a capire cosa fosse, io ero per strada, non poteva essermi caduto qualcosa addosso da un palazzo. Mi sono toccata la testa e ho visto la mano sporca di sangue. E subito dopo lui con un martello in mano. Era stata la prima martellata, seguita dalla seconda, dalla terza e dalla quarta. Mi sono subito accasciata a terra, sentendomi improvvisamente debole, spaventata. Ho pensato che quel giorno non sarei più tornata a casa». È una scena che si dilata e durante la quale Barbara rimane lucida, cosciente per tutto il tempo. E ben conscia di quello che le sta accadendo. Mentre lui ripete quella frase, solo quella, sempre uguale. «Mentre ero a terra ha riempito il mio volto e il mio corpo di calci e pugni. Poi ha aperto il giubbotto e ha tirato fuori un coltello, mi ha accoltellata all’addome mettendo fine alla vita di mio figlio. “Bastardo, perché lo fai?”. “Non posso averti, meglio ucciderti”, diceva solo questo. Poi è tornato in macchina, ha aperto il cofano ed è tornato verso di me con dei giornali e un bidoncino, non è stato difficile capire cosa stava facendo. Mi ha cosparsa di combustibile agricolo e mi ha dato fuoco. Si è messo in macchina a guardare. Mi sono detta che se avessi fatto finta di morire forse mi sarei salvata. Quindi sono rimasta immobile e mi sono lasciata bruciare, e lui ha davvero pensato che fossi morta. Quando l’ho visto andare via, mi sono alzata e ho spento da sola le fiamme».

Prima di tutto questo orrore, mai un’avance, una carezza, una parola fuori posto, uno sguardo di troppo. Niente. È un’esplosione di violenza e basta, repressa chissà per quanto senza mai manifestare sintomi, almeno apparenti. Per questo Barbara dice di sì, cosa aveva da temere? «Dato che quel pomeriggio ero sola avevo deciso di comprare delle scarpette o un ciuccetto da mettere sotto l’albero di Natale per dare a tutti la notizia che aspettavo il terzo bambino. Poi la sua chiamata, “ti devo parlare”, lungi da me pensare che potesse accadere questo». Invece succede. Lui tenta di ucciderla, ma lei non muore. «Ho scavalcato due metri e mezzo di filo spinato che divideva l’autostrada dalla statale, lasciando lì brandelli di pelle e sangue. Non sono stata soccorsa subito però, la gente non capiva cosa fossi, se un tronco d’albero, un pezzo di legno. Ero nuda, annerita, bruciata, non si capiva». Fino a che non si fermano un ragazzo e una ragazza sulla statale che le vanno incontro. «Ma come ti prendiamo?», le chiedono. «Ero tipo una candela cremosa, sono tornata io indietro da loro, mi hanno messa in macchina e ho detto il mio nome e cognome e il numero di mio marito. Poi ho fatto il nome del mio aggressore. Mi hanno accompagnata al primo pronto soccorso, quello di Carini, dove ho ripetuto tutto, rimanendo sempre lucida, per tutto il tempo».

Poi di nuovo un bruciore forte, qualcuno la sta intubando. La portano in terapia intensiva ed entra in coma. Anche se per lei è qualcosa di ben diverso. «Sono stata nell’aldilà. Su prati verdi bellissimi con bambini biondi vestiti di bianco che giocavano. Un posto pieno di serenità e di pace, ma evidentemente non era il momento di rimanere lì. Infatti, dopo dieci giorni mi sono risvegliata e lì è cominciato il vero martirio. Ti infilano in questi bagni speciali, ti stirano, ti carteggiano, ti evitano la setticemia. Mi hanno distrutto per salvarmi la vita». Resta lì per mesi, subendo interventi su interventi. Sola in una stanza asettica, «senza la carezza di una mamma, il conforto di un papà, una frase d’amore di tuo marito, senza il profumo dei tuoi figli». Mesi di dolore, durante i quali «ogni medicazione significa perdere liquido, restare con la pelle attaccata alle bende, resistere a febbroni da cavallo. Ho perso 18 chili di muscoli, a 29 anni è stato come fare un nuovo svezzamento, imparare di nuovo a camminare. Mi hanno dato delle guaine di compressione che ho usato per cinque anni. Fino al 2014 ho subito altri 27 interventi, poi ho detto basta, mi sono dedicata a mio padre, ai suoi bisogni». Crea l’associazione Libera di vivere, «è la mia missione, è simboleggiata da una farfalla che mi rappresenta, per questa voglia di volare e di scappare nello stesso tempo. Io non ho avuto un preavviso, chi ce l’ha dovrebbe approfittarne, scappare e denunciare».

Di quella camera asettica oggi resta un ricordo, vivido e doloroso, ma solo un ricordo. A cambiare però non è solo il suo corpo. Ma tutta la sua vita. Come anche quella di lui, che l’ha quasi ammazzata. «Fra riti abbreviati, lui reo confesso e patteggiamenti, il mio aggressore è stato quasi sempre libero, si è fatto pochissimi mesi. Da una pena di 25 anni si è scesi a 21, e da 21 si è arrivati a quattro anni di arresti domiciliari. Quell’anno la politica diede l’indulto, cioè porte aperte per tutti, quindi non si è praticamente fatto mai la galera». Ma il suo premio non è solo la libertà. Viene assunto in banca, si sposa con la storica fidanzata dell’epoca e mette su famiglia. «Io sono stata sei mesi in ospedale e dopo aver avuto la continuità ospedaliera sono stata silenziosamente ed educatamente licenziata, hanno cautelato lui perché comunque nell’impresa c’era suo zio. Mentre io non ho più trovato lavoro, “fai impressione, dove ti metto?“, mi dicono. Evidentemente non sono stati in un centro grandi ustioni, dove ci sono persone che hanno perso occhi, arti, sorrisi, gente che è morta. Sarei potuta essere una donna che non porta la missione che porta, senza prestarmi agli altri, senza aprire l’associazione, senza girare l’Italia con la mia testimonianza».

E lui? «Non abbiamo mai ricevute scuse o altro da lui né dalla famiglia. Noi siamo persone perbene, siamo genitori, abbiamo deciso di restare al nostro posto. Abbiamo pagato tutte le perizie che il tribunale ha chiesto, quella fisica, quella psichiatrica, quella biologia, 2.500 euro a botta, non siamo entrati in nessuna aula di tribunale perché noi siamo la parte lesa, non quella accusata. Questa è la mia storia. Dopo il martello, il coltello, la benzina, la strage, la tragedia, il centro ustioni, vado a morire nel letto di casa mia? Non è possibile, io sono una figlia, una moglie e una madre, se cado io cadono tantissime altre persone. Ma anche i più forti sono deboli, a casa mia piango dalle 8.30 alle 13 e poi dopo le 23, ma pianti non ne deve vedere nessuno. Sorrido alla vita. Certo, mi dispiace come donna, come moglie, ma va benissimo così perché sono un cuore che batte, posso dire solo grazie. Si dice che ognuno ha il proprio destino, me lo sarei risparmiato ma si vede che doveva andare così. Quello che io ho vissuto è quello che io dono nelle mie testimonianze».

Va in giro a raccontare quello che ha subito e affrontato, aiutando moltissime persone. La invitano da tutta Italia e, pagandole voli e soggiorni, sono tante le realtà che contribuiscono a diffondere la sua testimonianza, dalle associazioni a scuole, docenti e sindaci. Eppure, oltre a non riuscire a trovare un lavoro, oggi le viene anche negato di avere una sede stabile a Palermo per l’associazione attraverso cui riesce a fare tanto per gli altri, «il Comune è interessato ad altre cose. E poi non ho nessun amico politico, quindi continuo da sola, appoggiandomi ad altre associazioni con cui faccio rete e a studi legali». Non c’è un filo di rabbia, di livore, di risentimento nelle sue parole. Barbara racconta la sua storia e il suo presente con una serenità e una consapevolezza che quasi impressionano. «Non c’è stato verso di giustizia, il nulla. Però che fai? Ti fermi? Muori? Assolutamente no, devi lottare. Il processo non si riapre, ma si può dare forza agli altri, devi sempre lottare – ripete oggi -. Io ho avuto due vite, ma una di queste è stata un martirio, tu cosa aspetti per vivere? Che ti accada qualcosa di eclatante? No, previenilo, se devi fare un progetto fallo adesso perché domani può succedere qualcosa e sei finita, perciò vivi adesso. Io aiuto tantissime persone, ma nessuno ha fatto niente per me».

«Sono una piccola donna del sud che combatte contro il nulla e contro il tutto – dice ancora -. I miei figli, i due maschi, hanno saputo la mia storia solo l’anno scorso, la bambina nata invece nel 2007, e che rappresenta la mia rinascita, non sa ancora niente. Sono stati momenti dolorosi, sapevano qualcosa, intuivano, ma erano un po’ confusi: la mamma ha scritto un libro quindi è una scrittrice, la mamma va in tribunale quindi è un’avvocata, la mamma va nelle scuole quindi è un’insegnante». Uno dei due maschi è da poco entrato nell’esercito e sogna di diventare un servitore dello Stato. «”Per te mamma, per i tuoi sogni”, mi ha detto». Un’altra divisa in casa, quindi, che si aggiungerà a quella indossata già da suo marito: «Adora il suo lavoro, nonostante tutto. Lo fa con estrema passione, con estrema dignità. Malgrado come uomo sia stato lasciato solo. Lui lo sa quanto me che lo Stato non c’è stato. Ma io non ho bisogno delle poltroncine rosse di velluto. Vado avanti e dico a tutti che non ci sono solo le riunioni della Tupperware o dell’Avon, possiamo anche vendere vita, possiamo donare coraggio. Io lo faccio, non mi posso permettere di dire no alla vita».

Silvia Buffa

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