Podere mafioso, l’accentratore Leonardo Patanè «Per telefono sto prendendo 35 anni di galera»

I braccianti agricoli che non sanno per chi lavorano lo chiamano trafelati. Lui fa le telefonate al call center dell’Inps, fingendosi una volta quel lavoratore, una volta quell’altro. Ordina di tagliare «una trentina, una ventina» di dipendenti delle presunte aziende fantasma quando i numeri diventano poco credibili. È ancora lui a intervenire quando qualcuno alza la cresta. L’ordinanza dell’inchiesta Podere mafioso, firmata dal gip Santino Mirabella, fa emergere la funzione baricentrica del 64enne Leonardo Patanè nell’organizzazione che, secondo la procura di Catania, truffava l’Inps per conseguire indebite indennità di disoccupazione agricola. Una struttura gerarchica che presenterebbe una forma di coordinamento tra le due città in cui la presunta truffa veniva consumata, Giarre e Paternò, e altri due uomini di vertice, presunti affiliati al clan Laudani: nella zona jonica il 50enne Giovanni Muscolino, a Paternò il 42enne Antonio Magro. Tutti e tre si trovano già in carcere. Secondo la procura sarebbero i capi e i promotori dell’associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato. Alcuni fatti sono aggravati dal metodo mafioso

Numerose intercettazioni sembrerebbero confermare un patto di consultazione tra giarresi e paternesi, tra Patanè e Magro. I due, a giudicare dai documenti, si sentono più volte e pianificano di vedersi quando un’ispezione dell’Inps a un’azienda agricola che gli inquirenti considerano riconducibile a Patanè determina la cancellazione delle giornate di lavoro precedentemente riconosciute. «Quella l’hanno annullata, quell’altra l’hanno annullata. Lo hai capito? L’hanno annullata, come te lo devo dire?», lamenta Magro al telefono. «Quella?», chiede Patanè. «Bravo! Ahhh!», risponde Magro, aggiungendo che i due devono parlarsi urgentemente. «Dammi un’ora e sono là», conclude Patanè. 

I due, secondo gli inquirenti, si sentivano anche per tenere basso il numero di braccianti in carico alle varie aziende, affinché rimanessero credibili. «Vedi che tutti non può essere, ah, Nino, una trentina levaglieli, va bene?», avverte Patanè. «Ehm scusa, e me lo dici ora? E me lo dici così?», lamenta Magro. In un’altra situazione, Patanè fa scrivere dalla figlia Ramona – anche lei indagata – un sms a Magro, che non gli risponde al telefono. «Nel libro ce lo avete scritto, Nino di Paternò, gli mandi un messaggio?». Patanè doveva far sapere al presunto sodale che gli avrebbe consegnato una cifra di denaro utile per calmare un funzionario Inps, ritenuto compiacente, preoccupato che qualcuno avesse fatto una denuncia. «Che questa sera, anche se è mezzanotte, c’ha i soldi. Te li vengo a portare fino a casa. Gentilmente, però, rispondi al telefono». 

Leonardo Patanè parla molto al telefono, eppure è ossessionato dall’idea di essere ascoltato. «Fammelo ripetere due volte, tre volte, per telefono», dice spazientito alla moglie Daniela Wissel, coinvolta nell’inchiesta in quanto faccendiera del marito. «Io ti devo rimproverare perché una telefonata di questa qua tu non puoi sapere quello che significa… Il tuo principale… Se non lo sai tu che hai il contratto!», urla a un imprudente Diego, bracciante che non ha idea del nome dell’azienda per cui dovrebbe lavorare. Fino a una conversazione quasi profetica con una donna che lo contatta per lamentare il mancato pagamento dei contributi spettanti al marito, altro bracciante. «[…] perché, per telefono, sto prendendo 35 anni di galera io, mi crede?». L’interlocutrice afferma di non aver capito. «Eh, quello che ha sentito. Praticamente sono cose che bisogna parlare in ufficio da me, privatamente… Non possiamo parlare per telefono! Le spiego perché, perché io, purtroppo, ho sia il telefono messo sotto controllo…».

Il sospetto, se non la consapevolezza di avere gli apparecchi sotto controllo, entra in contraddizione con alcune telefonate che lo stesso Leonardo Patanè effettuava al call center romano dell’Inps, fingendo di essere di volta in volta un lavoratore diverso, e informandosi sullo stato di maturazione della disoccupazione. Il pm allega nell’ordinanza alcune conversazioni di questo tipo. «Buongiorno, sono Alessia. Come posso aiutarla?», dice la voce all’altro capo della cornetta. E lui: «Sì, buongiorno, era per la mia disoccupazione agricola». Un atteggiamento accentratore colto anche dal gip, che annota: «Si muove con mille modalità, sempre al fine di gestire la situazione da dominus». 

Un ruolo che gli avrebbe permesso anche di essere ben voluto. «Gli devi dire tra una settimana, cinque giorni gli arriva la disoccupazione!», dice a una delle tante mogli, madri o compagne di braccianti agricoli in attesa dell’assegno. «Non è una bella notizia?», aggiunge poco dopo. La donna lo ringrazia. In altre circostanze, a quel che dicono gli atti, Patanè fa invece rispettare il pagamento della percentuale spettante all’organizzazione con un lavoratore recalcitrante, che aveva consegnato 1500 euro anziché 2200. Per farlo si rivolge direttamente al presunto reclutatore Fabrizio Giallongo, finito ieri agli arresti domiciliari: «1500?», domanda sorpreso Giallongo. «Ah no? Coppa gli stavo dando», spiega Patanè. «Va bene, ora gli chiamo io a suo cugino», conclude il reclutatore. 

Marco Militello

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