Pizzo, 27 anni fa la denuncia pubblica di Grassi La figlia: «Il cambiamento è ancora troppo lento»

«Rispondo al magistrato Luigi Russo: se tutti si comportano come me si distruggono le industrie? Io dico che se tutti si comportano come me si distruggono gli estortori». Sono passati 27 anni da quelle parole, da quell’intervista dell’11 aprile del ’91 di Libero Grassi, invitato da Michele Santoro a parlare nella trasmissione Samarcanda. Parole che a sentirle ancora oggi impressionano, colpiscono, fanno male. «Il cambiamento culturale a Palermo è ancora lentissimo», dichiara Alice Grassi, intervenuta al dibattito organizzato dall’associazione Addiopizzo al teatro Garibaldi, per discutere del fenomeno estorsivo, della sua evoluzione dal 2004 – anno del primo attacchinaggio per le strade della città – ad oggi. «Purtroppo è ancora necessario organizzare questo tipo di incontri», sottolinea la figlia. Le fa eco il fratello Davide, anche lui presente oggi: «Spesso accade, qui come altrove, che si facciano due passi avanti ma anche, subito dopo, due indietro. Ma se non ci fossero realtà come Addiopizzo e circuiti che provocano e stimolano a denunciare, sicuramente si rimarrebbe fermi o si farebbero solo passi indietro».

              

«Se siamo qui a parlare di questi temi significa che c’è ancora molto da fare», ribadisce infatti anche Daniele Marannano di Addiopizzo. «Nel 2004 l’80 per cento degli operatori economici pagava il pizzo. Nessuno parlava, in pochi erano impegnati per cambiare questo stato di cose e chi pagava anzi veniva compreso, giustificato dallo stato di necessità – spiega -. Oggi non denunciare è diventato invece un disvalore sociale e attorno ai commercianti c’è una rete concreta, una cintura di protezione sociale». Il fenomeno estorsivo esiste ancora, però. È un fenomeno che si rigenera di continuo, seppure contesti e numeri non siano come quelli del 2004. «Dobbiamo interrogarci sul perché, nonostante i colpi inferti al muro dell’omertà, questo muro esista ancora; dobbiamo interrogarci sul perché siamo ancora una minoranza, un’avanguardia», sollecita Marannano, alla luce di una realtà oggi quasi di scambio tra estorsori e commercianti, che in alcuni caso sfruttano il profilo criminale del proprio aguzzino per trarne, di rimando, alcuni vantaggi.

Per combattere un mostro, però, bisogna conoscerne ogni aspetto, punti di forza e punti deboli, se si vuole avere qualche chance di sconfiggerlo. Per questo è importante riflettere anche sui numeri, che qualcosa forse la dicono: «Nel triennio 2015-2017 sono pervenute in prefettura 29 istanze di accesso ai benefici per favorire la ripresa economica di attività danneggiate da atteggiamenti lesivi – spiega la vicaria Giuseppa Scaduto -. Di queste, sono sei su dodici quelle partite spontaneamente da chi ha subito e denunciato nel 2015, mentre tre su cinque nel 2017. Non è nascondendo la verità che si può sperare di produrre un cambiamento. Sarà una strada lunga, difficile ma non impossibile». È d’accordo con lei anche il procuratore aggiunto Salvatore De Luca: «Quando sono entrato in magistratura nel marzo dell’83 si discuteva sul fatto se la mafia esistesse o meno, se non fosse solo un atteggiamento sottoculturale tutto nostro. Oggi nessuno si sognerebbe di discutere una cosa del genere», esordisce.

«In questo momento secondo le mie valutazioni Cosa nostra è sulla difensiva. Questo è sicuramente un bene, ma non significa che dobbiamo rilassarci, tutt’altro. Le estorsioni hanno ancora un rilievo fondamentale, sono uno dei principali canali di guadagno della mafia». Tuttavia, qualcosa inizia a cambiare davvero. C’è qualcuno, tra i picciotti delle cosche locali, che inizia a sentirsi scoraggiato dalla scelta di sempre più commercianti di non piegarsi. Ma è una cerchia ristretta quella che si pone, a modo suo, degli scrupoli. «A Palermo esistono dei contesti sociali in cui Cosa nostra è fortemente radicata. Non sarà la maxi operazione a porre fine a tutto, a svuotare i mandamenti – continua il magistrato -. All’azione militare serve una parallela attività culturale nelle scuole, nelle strade, tra la gente. Sono convinto che finirà. Ma solo se ci sarà un risveglio delle coscienze, delle culture».

C’è ancora, a Palermo, qualcuno che a questo non crede. Ma c’è anche chi ci crede più di altri. Chi, per esempio, ha denunciato ed è tornato a vivere una vita normale. Sono quelli come Giovanni Sala, imprenditore di Altofonte, che riceve la prima richiesta estorsiva da un amico che conosce da una vita, 18 anni fa: «Sono rimasto basito, ho calato la testa, pensavo alla mia famiglia, avevo tre figlie, un’azienda. Mi sono comportato da codardo, non avevo la reale contezza di quello che stavo facendo, non capivo che i miei soldi, anche se pochi, stavano alimentando il loro business – racconta -. All’inizio hai paura, pensi solo ad allontanare queste persone. Poi però ti rendi conto e passa tutto in secondo piano: il fatto di conoscersi da una vita, di avere amici comuni, di incontrarsi in paese, di avere i figli che vanno nella stessa scuola. Non penso di essere in pericolo, la mentalità è cambiata, per questo prego i miei colleghi imprenditori e commercianti di non farsi venire troppi dubbi, oggi non si è più in pericolo come lo si era una volta e credo che non ci sarà più un Libero Grassi».

Ci crede anche chi Palermo non ce l’ha nel sangue, ma che qui ha iniziato una nuova vita. Come uno degli imprenditori originari del Bangladesh che lavorano in via Maqueda e che hanno deciso, tutti insieme, di denunciare anni di vessazioni subite. «Ogni giorno venivano a chiedere qualcosa, all’inizio pensavo che funzionasse così, che io ero stato aiutato e quindi dovevo aiutare a mia volta. Poi sono finiti i toni dolci, sono iniziate le minacce, non forti ma velate: conoscevano tutto di me, i miei figli, mia moglie, i nostri spostamenti e abitudini. E poi hanno iniziato anche ad alzare le mani ai clienti, una situazione che non poteva lasciarmi inerme – racconta il commerciante -. “Forse funziona così qua”, mi dicevo. Ma poi ho cambiato idea. Ho parlato con gli altri colleghi, con i connazionali, ho incontrato i ragazzi di Addiopizzo, ho iniziato un percorso di denuncia. Palermo non è così, se uno vuole fare ci può riuscire».

Silvia Buffa

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