Più dialetto, anche in classe Ma a Librino la sfida è averne meno

«Il siciliano a scuola? È utile, accussì ni capemu megghiu». Giuseppe frequenta le elementari all’istituto comprensivo Vitaliano Brancati di Librino e non ha dubbi: se la sua scuola dovesse accogliere la proposta approvata dalla Regione siciliana lo scorso maggio che promuove l’insegnamento del dialetto nelle scuole dell’isola, lui sarebbe contento. I suoi insegnanti decisamente meno. «Sarebbe insensato – dice Santo Molino, dirigente scolastico dell’istituto Pestalozzi – Il nostro problema è all’inverso quello di portare i ragazzi ad una corretta espressione nella lingua italiana, che è la lingua veicolare». Per evitare agli alunni «lacune difficili da colmare e difficoltà ad inserirsi in nuovi contesti da adulti», gli fa eco un’insegnante.

La decisione di introdurre le nuove discipline legate alla cultura sicula nel piano di studi dell’anno scolastico appena iniziato è facoltativa. Come ha spiegato l’assessore all’Istruzione della Regione siciliana Mario Centorrino, le scuole elementari, medie e superiori potranno scegliere, per via dell’autonomia scolastica, di integrare quattro ore settimanali dedicate all’insegnamento della storia della Sicilia, della sua letteratura e del suo dialetto ai corsi già in programma. I nuovi moduli non prevedono l’aumento dell’orario scolastico né l’ausilio di nuovi docenti. «Se ne occuperanno i professori già in servizio – ha dichiarato Centorrino – I più coinvolti saranno quelli di lettere o storia». Per l’assessore questi nuovi insegnamenti mirano a sviluppare nei ragazzi un senso di appartenenza al territorio e ad avvicinarli alle loro radici e tradizioni.

Ma cosa ne pensano i diretti interessati? Siamo andati a chiederlo agli alunni, ai genitori e agli insegnanti dei plessi centrali degli istituti comprensivi Vitaliano Brancati e Pestalozzi di Librino. Alla Brancati, in cortile, in attesa della campanella, tutti chiacchierano. Più in siciliano che in italiano. Eppure, secondo tutte le mamme intervistate, insegnarlo a scuola sarebbe utile. «Perché la tradizione siciliana si sta perdendo e il dialetto è comunque una seconda lingua» rispondono. «Ha senso se si fa capire ai ragazzi che ci sono regole di tipo linguistico anche nel dialetto – spiega il dirigente scolastico dell’istituto, Giuseppe Vascone – che non è anarchico e che c’è una correlazione tra la lingua nazionale e il dialetto locale». Quasi più difficile che imparare l’italiano, direbbe Giuseppe. E comunque, aggiunge una docente, non è necessario: «Qui tutti parlano il siciliano, semmai l’italiano è la seconda lingua». «Secondo me ci sarebbero cose più importanti», conclude amara.

Ascolta la nostra intervista all’istituto Brancati di Librino

D’accordo con la collega è anche un’insegnante di sostegno dell’istituto Pestalozzi. Per lei la cosa più importante sarebbe evitare di sottrarre quattro ore alla settimana a quelle dedicate alla lingua italiana: la vera emergenza. «Specialmente in una scuola come la nostra – spiega – dove c’è un’utenza particolare, che parla prettamente in siciliano. Sottrarre le ore all’italiano andrebbe a discapito degli stessi bambini che presenterebbero lacune difficili da colmare alle superiori e avrebbero difficoltà ad inserirsi in nuovi contesti da adulti».

Conti che, comunque, al professor Santo Molino, dirigente scolastico dell’istituto Pestalozzi, non tornano. «Centorrino, con tutto il rispetto, è un docente universitario senz’altro valido – dice – ma parlare di scuola richiede la conoscenza empirica di come funziona il pianeta scuola». Per il preside «nei programmi delle classi che coprono l’istruzione di ragazzi da tre ai 18 anni, pensare che si possa dare lo stesso tipo di attuazione a una proposta del genere è assurdo». Per ogni fascia di età scolare si dovrà stabilire la giusta attuazione della legge.

Legge la cui interpretazione ha suscitato secondo il professor Molino parecchi equivoci. «All’inizio abbiamo pensato di essere stati contagiati dalla subcultura bossiana – spiega – per cui, così come al Nord hanno la patologia Bossi, qui in Sicilia abbiamo la patologia di  un pinco pallo politico che pur di avere quattro voti non sa quale volgarità sperimentare». Se si trattasse dell’insegnamento del dialetto sarebbe, secondo Molino, «veramente una proposta priva di senso, perché oggi i dialetti sono un modo parcellizzato di interpretare la lingua locale per cui il dialetto siciliano muta da paesino a paesino». Una disciplina diversa per ogni scuola? «Ancora più insensato», suggerisce il preside. Tanto più che molti il dialetto lo parlano già, come ricordano gli stessi bambini. «Il nostro problema – continua Molino – è all’inverso quello di portare i ragazzi ad una corretta espressione nella lingua italiana, che è la lingua veicolare».

Per il dirigente della Pestalozzi, comunque, nel ddl della Regione c’è di più. Non un insegnamento separato del dialetto siciliano, ma un approfondimento della storia, della cultura e della lingua sicule. «Il senso corretto della legge – conclude Molino – è quello di prevedere che all’interno di ogni disciplina ci si adoperi alla trattazione delle questioni di carattere regionale». Non solo nelle ore di storia e lettere, quindi, ma anche in quelle di storia dell’arte, scienze e geografia.

 

[Foto di * RICCIO]

Agata Pasqualino

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