Pippo Fava e lo spirito di un giornale Una storia ancora da scrivere

È sempre difficile, ogni 5 gennaio, distinguere i pensieri per i quali va usato il presente da quelli per i quali si può, o si deve, adoperare il passato. Quant’è cambiata Catania da allora, quanto siamo cambiati noi? Non ci sono più, per esempio, i Cavalieri del lavoro: che riempivano la città di cemento, andavano amabilmente a braccetto con Santapaola, contrattavano lucrosi appalti distribuendo tangenti e agitando il ricatto della disoccupazione. Ci sono, anzi, alcuni imprenditori che si ribellano al pizzo, e che vincono qualche battaglia importante. Ma ci sono anche rampolli della famiglia Ercolano – incensurati, beninteso – che vengono celebrati sulle pagine di riviste patinate come modelli vincenti della nuova imprenditoria catanese.

Non c’è più una città indolentemente rassegnata a consegnare l’intera informazione nelle mani di un solo editore, regalandogli, con questo, il potere di dire e soprattutto quello di tacere. Ma Ciancio continua a detenere il controllo pressoché assoluto di carta stampata e tv cittadine; e l’edizione siciliana di Repubblica – la cui distribuzione anche in Sicilia orientale è stata il risultato di una battaglia lunga e faticosa – dedica ancora, a questa parte di Italia, uno spazio poco più che simbolico. Non ci sono più i comitati per l’onore di Catania che protestavano contro gli inviati dei grandi giornali che, di tanto in tanto, accendevano la luce sulla città. Ma anche oggi, se una buona inchiesta televisiva prova a raccontare gli scandali che altri non raccontano, un pezzo importante dell’intellighenzia cittadina è pronta a rivolgere la sua indignazione non contro gli scandali, ma contro chi ha provato a denunciarli.

Non è più a Catania, almeno in buona parte, il gruppo dei redattori che, all’indomani dell’uccisione di Pippo Fava, continuò a portare in edicola il suo giornale, facendone una scuola di mestiere e di impegno civile. E si è dispersa qua e là anche la generazione che fu formata da quella scuola: una leva di giovani giornalisti che ha spesso dovuto scegliere di percorrere altre strade, o di percorrere la propria strada lontano dalla Sicilia. C’è però, ancora, la stringente attualità di ciò che quella scuola ci ha insegnato: la necessità estrema – per questa città, ma non solo – di un’informazione che non si arresti prima del confine della verità; che lasci distinguere al lettore dove finisce il fatto e dove comincia la sua interpretazione; che vada infine a scovare le notizie dovunque esse siano, senza limitarsi a stampare quelle che arrivano, già addomesticate, sulle scrivanie della redazione. Sono ancora tanti i catanesi che provano a costruire qualcosa, nell’informazione, ripartendo da questo insegnamento: e sono soprattutto giovani, anche se dal 5 gennaio sono passati ventisette anni.

Guarda lo speciale del Tg3 “Delitto Fava un anno dopo” mandato in onda il 5 gennaio 1985. Per gentile concessione della Rai Sicilia.

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Non ci sono più molti pezzi del mosaico che, in quegli anni, costituiva il sistema di potere catanese. Ma è ancora difficile dire fino a che punto il disegno che quei pezzi componevano si sia sostanzialmente modificato. Non vediamo più, certo, sindaci capaci di farsi allegramente fotografare mentre brindano con Santapaola. Ma esistono ancora i quartieri ad alta ingegneria asociale che producono, soprattutto tra i minori, la manovalanza della mafia. E c’è ancora il triste mercato del voto: promesso e venduto non solo in cambio di un posto di lavoro, ma anche soltanto di pochi pacchi di pasta.

Non c’è più un’Università chiusa in se stessa, cronicamente incapace di leggere la realtà che le sta intorno e di fare da incubatrice a esperienze innovative. Ma c’è un Rettore culturalmente inadeguato a comprendere che, per chi fabbrica cultura, il dissenso non è una minaccia ma una ricchezza; e che si ingegna con ogni mezzo a cacciare fuori dall’Ateneo alcune tra le realtà più belle e libere che esso abbia saputo produrre.

Non c’è più il Palazzo di Giustizia che teneva in un cassetto i fascicoli penali per non disturbare gli appalti dei Cavalieri; quello che per anni provò a battere, nelle indagini sul delitto Fava, tutte le piste immaginabili eccetto l’unica logicamente plausibile, quella della mafia. Ma gli strascichi dell’ultimo caso Catania si sono protratti fino a ieri; ed è solo di pochi mesi fa l’insediamento di un procuratore finalmente esterno alla città: ai suoi equilibri, ai suoi compromessi e alle sue prudenze.

Non sarà con noi questo cinque gennaio, a ricordare Pippo Fava, il dottor Giambattista Scidà: il presidente del Tribunale dei Minori – ma potremmo dire, più semplicemente, il catanese – che levò la voce non contro quei figli di Catania che finivano per delinquere, ma contro la città matrigna che li spingeva a farlo. Su I Siciliani giovani si possono leggere queste sue parole: «Io ambisco all’incarico più prestigioso, alla carica più elevata. Onorevole? No, non sono così modesto. Ministro, primo ministro, presidente? Via, non mi perdo dietro cose così da nulla. La mia ambizione è ben più grande. Io ambisco alla carica massima della Repubblica, la più in alto di tutte: quella di cittadino». Parole che sembrano prese da un altro tempo, da un’altra misura del vivere civile. Ma che, forse proprio per questo, non riusciremmo oggi a coniugare al passato.

Come da un altro tempo sembrano a volte arrivarci le parole e gli sguardi di Pippo Fava, che è possibile rivedere nel documentario della Rai che fu trasmesso un anno dopo l’omicidio. Da un altro tempo, s’intende, non certo per la lucidità delle analisi e per il coraggio delle denunce, che restano anzi perfettamente attuali. Ma – per esempio – per la profonda capacità di ironia («Da giovane mi piaceva giocare a calcio: non ero bravo, ma siccome il pallone era mio giocavo da centravanti»…) di un uomo che la storia ha trasformato in eroe, e che non aveva voluto essere altro che un uomo. Un’ironia che è anch’essa misura umana, cifra di civiltà: lontanissima da un tempo in cui il potere ci ha abituati a idolatrare se stesso oltre ogni senso del ridicolo; da un tempo che è stato capace di celebrare pubblicamente come eroe un boss come Vittorio Mangano. Una misura umana che oggi può sembrare lontana, ma che proprio per questo, invece, è tanto più attuale. E della quale non possiamo permetterci di parlare al passato.

Gianfranco Faillaci

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