Pio La Torre, trentatré anni dopo l’omicidio Poche righe per cambiare la lotta alla mafia

«Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni». Quarantasei parole per morire. Sono i primi due paragrafi del 416 bis, l’articolo della legge Rognoni-La Torre che il 13 settembre 1982 introduce per la prima volta l’associazione di tipo mafioso e la previsione di sequestri e confische patrimoniali in presenza di un’accumulazione illecita di capitali. Un attacco frontale alla roba dei mafiosi. Là dove finora i boss erano stati inattaccabili.

Quando viene approvata la legge, Pio La Torre è già morto da quattro mesi e mezzo. È il suo sangue, è il sangue del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a spingere il testo in Parlamento. Il 30 aprile del 1982, poco dopo le nove del mattino, il deputato del Pci e il suo autista e uomo di fiducia Rosario Di Salvo vengono crivellati a colpi d’arma da fuoco mentre stanno raggiungendo la sede del partito a bordo di una Fiat 132. L’agguato avviene in via Turba, di fronte la caserma Sole. I mandanti dell’omicidio sono volti noti di Cosa Nostra: i boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.

La colpa di La Torre è rintracciabile in quelle righe, in quelle 46 parole. La rivoluzione del 416 bis si condensa in quel «per ciò solo»: non serve ammazzare, trafficare o rubare per essere mafiosi. Basta farne parte, accettarne la logica sanguinaria, indossarne la prospettiva di morte. Basta «per ciò solo». «Il disegno di Pio La Torre è la presa d’atto della realtà della mafia», fu la sintesi del generale Dalla Chiesa nella sua ultima intervista a Giorgio Bocca. Anche lui parlò prima che la Rognoni-La Torre superasse le reticenze parlamentari e soprattutto prima di essere a sua volta ammazzato, il 3 settembre di quello stesso anno. Dieci giorni prima del sì di Camera e Senato. Ma il testo proposto dall’esponente del Pci e dal ministro Virginio Rognoni non si limitava a questo. Il 416 bis aggrediva il patrimonio della mafia. I beni ricavati con soldi sporchi di sangue ritornavano ad essere beni della collettività. Una cosa inaccettabile.

All’appuntamento con i suoi killer Pio La Torre, nato a Palermo il 24 dicembre 1927, arriva dopo un percorso politico coerente, iniziato già a 18 anni con l’iscrizione al Partito Comunista. Il filo che unisce l’attivista al parlamentare ha lo stesso colore: quello delle terre occupate da braccianti e contadini, difese dalle angherie dei padroni, dei ras locali, dei cattivi che sparano. Un impegno che a 22 anni gli costa un anno e mezzo di carcere e che resta vivido, tangibile, anche dopo aver varcato la soglia di Montecitorio all’età di 45 anni, dopo tre passati alla direzione centrale del Pci a Roma.

Una vera e propria fissazione, quella di La Torre. Anche dalla lontana capitale, infatti, continua a porre e a porsi domande, a fare nomi e cognomi. Entra a far parte della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Poi, quattro anni dopo, scrive insieme al giudice Cesare Terranova, e ne è il primo firmatario, la relazione di minoranza dell’inchiesta, nella quale lancia accuse precise sui legami tra mafia e politica, in particolare alla Democrazia cristiana. A quella relazione allega il disegno di legge Disposizioni contro la mafia, destinato a passare alla storia per l’introduzione del 416 bis. Sarà proprio questo disegno, per il quale è stata necessaria una gestazione di sei anni prima della conversione in legge, la sua condanna a morte. Nel 1981 torna in Sicilia per assumere l’incarico di segretario regionale dei comunisti. Pochi mesi dopo perderà la vita nell’agguato di via Turba. Giusto due settimane fa la sua lapide commemorativa è stata imbrattata da ignoti e ripulita dagli alunni della scuola elementare Ragusa-Moleti. 

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