Pio La Torre, il ricordo a 36 anni dal suo omicidio «Quel giorno mio nonno non smetteva di piangere»

«Per un bambino di dieci anni i propri nonni sono inscalfibili, non immaginerebbe mai di vederli piangere. Ma quel 30 aprile del 1982 mio nonno non smetteva più di piangere perché “avevano ammazzato Pio, il compagno Pio”». È un ricordo personale, intimo, quello con cui Giusto Catania, capogruppo di Sinistra Comune, sceglie di ricordare quel giorno di 36 anni fa. Sono le 9.20 quando la Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo sta per partire alla volta della sede del Pci, dove però né lui né La Torre arriveranno mai. Una moto li blocca mentre sono fermi a uno stop in via Li Muli, nei pressi di piazza Turba. Parte una raffica di colpi, ai quali pochi attimi dopo si unisce anche un’auto sopraggiunta a dare manforte ai killer col casco. La Torre muore subito, il suo autista invece riesce a rispondere al fuoco, ma anche per lui non c’è scampo.

«La prima pagina de L’Ora, come al solito sul comodino, mi spiegava le ragioni di quella disperazione. Cominciai a leggere il giornale e compresi, come prima cosa, che la mafia aveva ammazzato Pio La Torre perché era comunista – scrive ancora Catania nel suo ricordo social -. In quel momento decisi da che parte volevo stare». Nato a Baida in un’umilissima famiglia di contadini, La Torre si impegna sin da giovanissimo nella lotta a favore dei braccianti, militando prima tra le file della Confederterra e poi nella Cgil, che gli affida il ruolo di segretario regionale della Sicilia. E poi è la volta del Partito comunista: nel ’60 entra nel comitato centrale e due anni dopo, anche qui, è eletto segretario regionale. Nel 1969 si trasferisce a Roma per dirigere prima la Commissione agraria e poi quella meridionale. Ma è solo l’inizio.

Nel ’72 viene eletto deputato ed è l’ispiratore materiale della legge approvata pochi mesi dopo il suo omicidio che ha introdotto il reato di associazione mafiosa, che porta il suo nome e quello dell’allora ministro di Grazia e giustizia, la legge Rognoni-La Torre e della norma che prevede la confisca, e quindi il riutilizzo sociale, dei beni ai mafiosi. Era tornato in Sicilia solo da un anno, quando i killer di Cosa nostra lo uccidono. A sparare sono Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Giuseppe Greco e Salvatore Cucuzza, tutti condannati all’ergastolo. Ma a comandare quel delitto sono in molti, e anche per loro nel ’95 viene deciso l’ergastolo: sono i boss dei boss, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, e anche Giuseppe Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Nenè Geraci.

«Un comunista, un uomo del popolo che ha intrecciato profondamente la lotta sociale con quella pacifista e quella contro la mafia – si legge ancora sul web -. Perché la mafia, nata come struttura di controllo e repressione dei braccianti, non è altro che un modo particolare di esercizio di un potere che non sopporta la democrazia e il protagonismo sociale. Perché la mafia è, come il fascismo, una forma barbarica di riproduzione dei rapporti sociali capitalistici». Un cordoglio, quello per la morte del sindacalista, che corre veloce sui social, tendenza dell’era moderna a cui si concedono tutti: «Per tutta la vita La Torre lottò per la giustizia sociale e la legalità, senza mai dimenticare la Sicilia. Dove decise di tornare per proseguire la sua battaglia – scrive per esempio Pietro Grasso -. Ricordo Pio La Torre per la sua straordinaria rettitudine morale, la profonda competenza e la grande lezione intellettuale e politica che ha lasciato a tutti noi». Mentre all’Ars, su richiesta del capogruppo del Pd Giuseppe Lupo, l’Assemblea ha osservato un minuto di silenzio in ricordo delle due vittime.

Ma a ricordarlo, giorni fa, erano stati anche i detenuti della casa circondariale Di Bona-Ucciardone, che hanno messo in scena lo spettacolo scritto da Gianfranco Perriera e diretto da Lollo Franco, Dalla parte giusta, incentrato sui diciotto mesi di reclusione che La Torre scontò ingiustamente proprio nello stesso carcere per avere occupato nel 1950 il feudo Santa Maria del Bosco a Bisacquino. «Fino a qualche anno fa era impensabile che un detenuto accettasse di vestire in scena i panni di un esponente delle forze dell’ordine. Oggi offriamo un’immagine di carcere diverso che accompagna i più deboli nel reinserimento nella vita sociale anche attraverso attività culturali e il lavoro», diceva per l’occasione la direttrice della casa di reclusione Rita Barbera.

«Fare memoria di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo significa proseguire l’impegno di lotta e di contrasto ai patrimoni mafiosi, che deve passare attraverso la sempre più trasparente ed efficiente gestione dei beni confiscati – è il commento anche del sindaco Orlando -. L’esempio di Pio e di Rosario ieri come oggi continua a stimolarci ed è per questo che nel loro nome prosegue un lavoro comune di impegno che unisce le Istituzioni e tanta parte della società civile che proprio a quella esperienza si ispirano».

Silvia Buffa

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