Piero Gobetti e le élite d’Italia

Con l’arrivo del governo “dei professori” di Monti, si riaccende il dibattito sulla selezione ai vertici del potere italiano. Piero Gobetti, già nella Torino degli anni Venti del secolo corso, aveva cercato delle soluzioni. Ne abbiamo parlato con il Professore David Ward, del Wellesley College, autore di un importante saggio sul giovane pensatore liberale ucciso da Mussolini.

L’Italia è stata affidata al “governo dei professori” di Mario Monti. In molti, soprattutto all’estero, hanno tirato un sospiro di sollievo che Berlusconi non sia più a Palazzo Chigi, ma altri storcono il naso per il modo con cui è avvenuta la selezione “dall’alto” di chi ci governa. Il rapporto tra gli italiani e la democrazia, gli italiani e il ruolo delle “élite” con il potere, resta un tema che riporta indietro ai “peccati originali” dell’Unità. Uno degli intellettuali che lo affrontò a fondo fu Piero Gobetti, il giovane genio del pensiero politico liberale torinese, morto nel 1926 a soli 25 anni a Parigi, per le conseguenze subite dopo un ennesimo assalto a Torino da parte di picchiatori fascisti inviati da Mussolini.
Il Professore David Ward dirige il Department of Italian Studies del prestigioso Wellesley College del Massachusetts, ed è l’autore del recente “Piero Gobetti’s New World: Antifascism, Liberalism, Writing” (University of Toronto Press, 2010). In questa intervista con lo studioso inglese esperto di letteratura e storia del pensiero italiano, abbiamo cercato di capire quanto le idee di Gobetti potrebbero essere ancora utili all’Italia di oggi.

Gobetti prefigurava il governo dei “migliori”, ma voleva che l’accesso a questa “elite” non fosse di casta ma per “merito”. Insomma “the best and the brightest” dovevano provenire da diverse classi sociali – ricordiamo che Gobetti proveniva da una famiglia di origine contadina da poco urbanizzata – . Ma come dovevano essere “selezionati” o “individuati” per Gobetti gli aventi diritto a diventare classe dirigente? Insomma quello che Gobetti riteneva un tema fondamentale per la “nuova Italia,” resta ancora oggi irrisolto…

“Gobetti prestava sempre molta attenzione alle élite, da qualsiasi classe sociale provenissero – l’élite della borghesia (come lui) o del movimento operaio torinese che aveva guidato l’esperienza dei Consigli di Fabbrica.  Elitaria era la sua concezione della scuola il cui compito principale era di produrre un’elite di giovani italiani, la futura classe dirigente moderna e dinamica che – secondo Gobetti – l’Italia unitaria non aveva mai avuto e di cui aveva bisogno urgente. Questo era in linea con la riforma della scuola proposta da Giovanni Gentile (prima del suo approdo al fascismo) a cui Gobetti dedica molto spazio nei primi numeri della rivista da lui fondata ‘Energie nove’.  Ma da nessuna parte negli scritti di Gobetti troviamo un’indicazione che le elite avrebbero dovuto svolgere funzioni esecutive nel governo. Le élite, nella concezione di Gobetti, lavorano dietro le quinte della vita parlamentare della nazione, stabilendo la base morale, culturale e politica [in inglese diciamo “setting the tone”] in sintonia con la quale la nazione è governata.  Gobetti stesso, benchè sempre politicamente attivo, non si iscrisse mai a un partito politico e non avrebbe mai sognato di diventare ministro, nemmeno in un governo tecnico”.

Il ruolo della scuola per formare gli “italiani nuovi”. Dopo aver sperato in Gentile, Gobetti ne resta deluso e non crede che la scuola italiana sia in grado di formare i cittadini italiani del futuro e la leadership adatta al Paese.  C’è un’idea di Gobetti sulla riforma della scuola che potrebbe essere d’aiuto oggi per un governo italiano che volesse ripartire dall’istruzione?

“Oggigiorno, con l’insediamento del nuovo governo tecnico di Mario Monti si parla un po’ di più del ruolo dell’elite. Tuttavia, ritengo che l’aspetto più inattuale, più datato degli scritti di Gobetti sia la sua convinzione che la scuola debba gradatamente scartare gli alunni meno portati accademicamente, e lasciando il campo libero ai più brillanti. In altre parole, una scuola a servizio quasi esclusivo di quelli ritenuti più bravi a costo di offrire una preparazione da Serie B agli altri.  Non è uno scenario molto allettante e non risponde affatto alle esigenze dei giovani di oggi (o dei loro genitori)”.

Gobetti riflette e scrive sui pensatori italiani del passato, non come semplice esercizio accademico, ma per immaginare l’Italia del futuro: come si legge nel suo “Piero Gobetti’s New World”, gli scritti che nella sua breve vita ci ha lasciato non andrebbero studiati come “storia” delle idee, ma come vera e propria “propaganda” per una politica possibile.  Si cita Bobbio, che scrisse che Gobetti va letto “come protagonista della storia in movimento, e forse pure come guida alla storia del futuro”. Cioè con Gobetti si studia una visione dell’Italia come non è mai stata?  O dopo il Ventennio fascista, almeno in parte, l’Italia un po’ lo è diventata come l’avrebbe voluta Gobetti?

“Non credo. Se per certi versi l’Italia che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi è un’Italia clientelare, nepotistica e poco meritocratica è ben lungi dall’Italia che Gobetti sperava potesse nascere grazie alla rivoluzione liberale che proponeva. Anche se Gobetti dava molto rilievo al ruolo delle elite, per farne parte non era sufficiente essere parente di qualcuno, era necessario conquistare lo status in campo, dimostrando il proprio talento, meritando di entrare nel club delle elite. Un’Italia più gobettiana avrebbe premiato e protetto i giovani talenti e evitato che così tanti cervelli giovani fossero costretti ad andare all’estero per dimostrare quanto valgono. In una società viva e autenticamente liberale nuove elite emergono per sfidare i loro padri metaforici, quelli che occupano i corridoi del potere, una nuova leva che rimpiazza un vecchio ordine (ma che sarà a sua volta rimpiazzata da una generazione futura di giovani energetici e ambiziosi). Senza questo antagonismo – che è l’esatto opposto del trasformismo – una società è destinata a degenerare e tradire le speranze dei giovani talenti”.

L’“antifascismo intransigente” di Gobetti viene visto anche come un limite. Perché?

“L’intransigenza non è un valore assoluto. Come esempio possiamo pensare al caso dell’intransigenza dei Repubblicani americani che hanno giurato che mai in vita loro – qualsiasi cosa succeda – permetteranno che si aumentino le tasse. Nemmeno un centesimo di più. Se l’intransigenza significa legarsi le mani, siamo più nel campo della fede cieca che della politica e della ragione.  Questa è un’intransigenza miope. Tuttavia, in circostanze d’emergenza, simili a quelle in cui viveva Gobetti, l’intransigenza è un atteggiamento più positivo e assume le vesti di un modo di protestare contro un avversario con cui non si vuole avere niente a che fare.  Gli anni in cui viveva Gobetti erano anni di ‘trasformismo’, praticato sia dalla classe politica liberale che da Mussolini nella prima fase del fascismo. Si è trasformisti quando si è disposti a pagare qualsiasi prezzo e formare alleanze temporanee con chiunque pur di garantire un voto per l’approvazione di una legge in cambio di favori e protezioni.  Trasformismo è governare senza principi, senza una bussola morale. Per Gobetti, l’intransigenza – la fedeltà ai propri principi etici – è il contrario assoluto del trasformismo”.

Anche il “berlusconismo”, come il fascismo, fa parte della “autobiografia di una nazione”?

“Il berlusconismo non è il fascismo per tanti motivi: oggi non ci sono in giro partiti di destra che credono nella bontà dello Stato etico, nello Stato che si intrufula in ogni angolo della vita dall’asilo in poi, che ci dice come dobbiamo parlare e vestirci, passare il nostro tempo libero e quanti figli dobbiamo avere. Più si va a destra, più si sentono parole di odio per la stessa idea dello Stato – o “government,” come si dice qua.  Ma se esaminiamo i settori della società che davano il loro consenso sia al fascismo che al berlusconismo troviamo elementi di continuità. La base del berlusconismo è la bassa borghesia, è qui che trova il suo consenso e sostegno; esattamente come il fascismo. Il problema per Gobetti non era tanto l’esistenza del fascismo in sé, ma l’esistenza di una borghesia amorfa  in cui lui identificava il terreno fertile che ha poi prodotto il fascismo, una borghesia che accoglieva  a braccia aperte il fascismo. In fondo, per Gobetti, il fascismo era una creatura della bassa borghesia, una risposta alle paure e speranze di questa classe sociale.  È per questo motivo che il fascismo è l’autobiografia della nazione.  Ed è qui che vanno esplorate le continuità fra il ventennio fascista e i 17 anni di berlusconismo”.

In Italia i “liberali” sono di “destra”, negli Usa i “liberal” di sinistra. Ma perché dopo aver avuto Gobetti e la sua “Rivoluzione Liberale”, in Italia i “liberali” non sono di “sinistra”?

“Gobetti non era di sinistra anche se ammirava i socialisti dei Consigli di Fabbrica e i comunisti della Fiat su cui scrisse un articolo nel mese di marzo 1922 dopo una visita alla fabbrica. Ma secondo Gobetti, sotto sotto, la parte migliore dei comunisti, l’elite dei comunisti era in fondo liberale poiché l’esperienza dei Consigli di Fabbrica gli avevano insegnato come essere imprenditori dinamici. Gli operai quindi erano una trasfusione di sangue nuovo per dare nuova vita a un liberalismo che sembrava moribondo. Il dinamismo degli operai torinesi, la loro operosità costituivano una nuova forma in cui i principi alla base del liberalismo – autonomia; imprenditorialità – dimostravano di essere attuali.

Per Gobetti, la vita dell’uomo di governo – così come dell’intellettuale –  nel privato doveva essere coerente col suo pensiero pubblico. Per Gobetti, la rinascita spirituale dell’Italia è anche non far distinzione tra comportamento pubblico e privato. Un pensiero rimasto sconosciuto alla prassi italiana…

“Gobetti era in fondo un puritano. Anche se lottava per la modernizzazione della società italiana, il suo personale codice etico era molto tradizionale. Credeva fermamente nel valore del matrimonio; voleva chi i giovani si spossassero e facessero figli presto in modo che diventassero subito “adulti” e quindi cittadini che assumessero responsabilità quanto prima.  Chiunque fosse un “naughty boy” in privato – senza menzionare nessuno – non aveva le carte in regola per poter assumere cariche pubbliche”.

Per Gobetti gli italiani “sono un popolo perso in un Paese che non è ancora nazione”. La lotta degli intellettuali è ardua e lunga per aiutare questo popolo, ma per Gobetti l’intellettuale ha il dovere morale di “combattere”, di impegnarsi sempre in politica. Chi non lo fa è per Gobetti un “disertore” complice del regime. Alfieri è lo scrittore del passato più idealizzato da Gobetti, gli italiani dovrebbero ispirarsi a lui per rinascere. Potrebbe oggi uno scrittore come Roberto Saviano essere considerato degno prodotto della “tensione etica” nell’intellettuale ricercata da Gobetti? Il successo dello scrittore campano non potrebbe rientrare nella speranza gobettiana che “l’italiano nuovo” è possibile?

“Nei suoi scritti, Gobetti offre spesso ai suoi lettori e lettrici una serie di ritratti degli intellettuali e politici che ammirava e proponeva come modelli del nuovo italiano che doveva nascere: Salvemini, Matteotti, Gramsci, Don Sturzo, per citare solo quattro che in diversi modi pagarono un prezzo per il loro impegno politico e la loro intransigenza (come pagò anche Gobetti).  Non ho dubbi che Gobetti avrebbe ammirato il coraggio e l’impegno etico di Saviano”.

Nel suo libro si descrive, nell’ultimo capitolo, i tentativi fatti sia a sinistra che a destra di appropriarsi dell’eredità di Gobetti, che insomma per molti dei partiti italiani della Repubblica, sarebbe stato “uno dei nostri”. Oggi, nel panorama politico italiano, chi avrebbe più diritto all’eredità del pensiero gobettiano?

“Gobetti era un liberale e liberale è rimasto per tutto il corso della sua breve vita, nonostante la sua ammirazione per le elite comuniste. Aveva però la sfortuna di vivere in un momento storico in cui il liberalismo italiano era in piena crisi, in mano ai trasformisti senza una visione di una futura Italia e senza un senso di missione. Tutti I suoi sforzi erano dedicati a un tentativo di trovare focolai del dinamismo politico che era assente nel liberalismo per dimostrare che lo spirito liberale era vivo e vegeto, ma non nei luoghi liberali tradizionali, ma in luoghi nuovi – la fabbrica – e praticato da liberali nuovi – le elite della classe operaia. Nel corso degli anni vari tentatvi sono stati fatti di appropriarsi dell’eredità di Gobetti, da tutte le parti politiche immaginabili e possibili, tranne una: i liberali. Per i liberali tradizionali di oggi, Gobetti è un traditore, un non-liberale che ha aperto la porta della rispettabilità ideologica al comunismo, un cavallo di Troia che ha permesso ai comunisti e al comunismo di affermarsi e legittimarsi.  E questo è un vero peccato”.

Stefano Vaccara

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