«Io non mi siedo, piuttosto mi faccio venire le varici. Perché a una madre non si può fare una cosa del genere». Ha lo sguardo fiero Giovanna Maccarrone, psicologa di Catania, mentre sfida il caldo estivo incatenata alla cancellata della cattedrale etnea, in piazza Duomo. Da due anni non vede suo figlio, 13 anni, per ordine del Tribunale dei minori che le ha revocato la patria potestà dopo una serie di battaglie legali con l’ex marito. E a niente è servita la contro-perizia depositata dalla donna a ottobre: in questi mesi, intanto, i termini per modificare il dispositivo del giudice sono scaduti. Tutto andrebbe rifatto da capo. Sempre lontana dal figlio. Così, alle 9 di questa mattina, ha deciso di incatenarsi in segno di protesta. «E starò qui fino a quando non parlerò con il sindaco o il prefetto», promette. Dal Comune, intanto, fanno sapere che il primo cittadino Enzo Bianco è fuori città per impegni istituzionali, ma si impegnano a far parlare la donna con un suo delegato.
La storia di Giovanna Maccarrone comincia tre anni fa. Quando, nel 2010, decide di separarsi dal marito. Sulla rottura aleggia uno spettro: un presunto abuso sessuale da parte del padre nei confronti del bambino. «È stato mio figlio a parlarmene e io, mal consigliata dagli avvocati, ho deciso di sporgere denuncia», racconta la donna. Un’arma rivelatasi a doppio taglio per la mancanza di sufficienti prove e la pressione psicologica suscitata nel figlio, spiega la madre. «Al momento della perizia, il bambino ha ritrattato tutto. Aveva paura che arrestassero il padre – spiega – Io non avevo altre prove e il mio ex marito mi ha dato della visionaria, denunciandomi a sua volta». Ed è stata questa la versione che ha più convinto il giudice etneo e che ha portato alla revoca della patria potestà della donna. Una decisione non irreversibile, al netto delle lungaggini burocratiche.
«Il giudice mi aveva detto che, se mi fossi sottoposta a una perizia, avrebbe modificato la sentenza permettendomi di vedere mio figlio – ripercorre la sua storia Maccarrone – Io ho accettato e ho depositato i risultati, sempre positivi, a ottobre. Dopo mesi, non avendo ricevuto notizie, mi sono informata e ho scoperto che il procedimento era intanto scaduto. Ho già presentato ricorso, devo ricominciare tutto da capo». Nel frattempo, da due anni non vede suo figlio. «Mi hanno detto che stavo vaneggiando e che, considerato il mestiere che faccio, ero una presuntuosa convinta di essere una buona madre», continua la donna. Senza stanchezza, con una determinazione condita solo da un pizzico di rabbia. Oggi il figlio sta con il padre, «o meglio con la nonna paterna, perché lui lavora e ha poco tempo». Impossibile per la madre mettersi in contatto con il bambino: «Il mio ex marito ha cambiato numero di telefono e nemmeno mia madre, la nonna materna, lo vede». Perché non è stato espressamente stabilito dal giudice.
«Se mi togliessero i miei figli e i miei nipoti, io leverei loro la vita», commenta un anziano signore che – come molti, tra cittadini e turisti – si ferma a chiedere il motivo della protesta della signora. «Ma il vero problema non sono le leggi, come molti credono – spiega Andrea Poma, presidente dell’associazione Genitori a vita, in piazza per sostenere Giovanna Maccarrone – Il problema sono i giudici, che emettono sentenze stereotipate senza badare al condiviso. Trascorrere 25 giorni al mese con un genitore e i restanti con un altro che condivisione è?». Un risultato insoddisfacente dopo un percorso lungo e costoso «che è un vero e proprio business». Fatto di perizie e consulenze di parte sempre presenti – «al costo di tremila euro quando va bene e sono brevi» – anche dove le storie personali e gli accordi tra le parti non sembrano richiederlo. «Io stesso mi sono incatenato davanti al Tribunale alcuni mesi fa – racconta Poma – Così, dopo 14 mesi e 28mila euro spesi, il giudice ha finalmente messo la firma necessaria per farmi vedere mio figlio».
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