Se l’idea base del Movimento primo marzo, presa in prestito dalla Francia che ha ideato La journée sans immigrés: 24h sans nou, è quella di far comprendere all’opinione pubblica “quanto sia determinante l’apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società”, l’intento con cui nasce “Liberi tutti” è quello di “mettere in risalto il paradosso di un Paese che considera ancora straniera una larghissima fetta di popolazione italiana”. Stiamo parlando degli stranieri di seconda generazione – nati e cresciuti nel Belpaese, arrivati a quota 500 mila- che frequentano le nostre scuole, parlano i nostri dialetti e tifano per le nostre squadre. Sono loro i protagonisti di questa nuova avventura editoriale, frutto del lavoro e della sensibilità di una redazione composta da studenti universitari figli di migranti, coordinati da due giovani giornalisti come Claudia Brunetto e Dario Prestigiacomo, che ha raccontato con successo “le storie di vita, i disagi e le problematiche delle loro comunità”. Il risultato è uno strumento agile e prezioso, utilissimo per chiunque voglia conoscere e capire qualcosa in più di queste realtà che da anni vivono e lavorano in città, e destinato a circolare negli ambienti più disparati.
Un lavoro che prende spunto dal costante aumento di stranieri iscritti nelle nostre facoltà (circa trecento in questo anno accademico), con una preferenza per quelle scientifiche, considerate “più intuitive e stimolanti”, senza però trascurare la possibilità di diventare interpreti o insegnanti. Una tendenza nuova che fa a pugni con la necessità di “trovare un impiego, anche uno qualsiasi, per portare i soldi a casa” e che denota un cambiamento vero, interno alle dinamiche familiari e non solo. E’ il caso del ventiseienne Thayaraj Arulnesan. Arrivato nel capoluogo siciliano all’età di dieci anni, obbligato, per via della lingua, a ricominciare la sua carriera scolastica dalla seconda elementare, in poco tempo e da esterno ha finito le scuole medie. Conseguito il diploma di perito elettronico, Thayaraj si è adesso laureato. “Primo tamil di seconda generazione a conseguire la laurea in Italia”, come scrive lui stesso, il giovane è un esempio per tanti. Realizzando il sogno di suo padre, che “desiderava che suo figlio diventasse istruito in modo da poter fare un lavoro più prestigioso del suo”, il dottore Arulnesan ha indicato la svolta, facendo breccia nel modo di pensare di intere famiglie e di intere comunità, che hanno così cominciato a sostenere i ragazzi nel loro percorso di studi. Il valore simbolico di questo risultato è stato riconosciuto dalla stessa Università, che ha arruolato Thayaraj come testimonial, assieme ad altri volti poco noti, per l’ultima campagna di immatricolazione.
Contrapposta a questa è la storia di Rahima Begun, insegnante con due lauree in una scuola superiore del Bangladesh, collaboratrice domestica qui in Italia. Ad accomunare ambedue, titoli accademici a parte, l’ormai patologica difficoltà di trovare un impiego regolare e sostenibile e che in certi casi si trasforma in impossibilità. Impossibilità, una volta raggiunti gli ‘anta’, di aspirare a una pensione; impossibilità di guadagnare, a parità di mansione, quanto i colleghi italiani; impossibilità di ottenere un meritato avanzamento di carriera, ecc. Racconta Samuel Arhinful, anche lui insegnante in Sierra Leone, da un anno ospite della “Missione Speranza e Carità” di Biagio Conte: “Anche quando facevo l’operaio al Nord, sembrava scontato per il datore di lavoro che fossi pagato meno degli altri, come un lavoratore di serie B. Noi immigrati –prosegue Samuel- siamo spesso costretti ad accettare qualsiasi compromesso, pur di avere due soldi in tasca per un panino, e questo problema del reddito ci condiziona per tutta la vita”. E non basta. Senza occupazione, quando scade il permesso di soggiorno, si va incontro all’espulsione, e tanti, pur di evitarla, accettano le mansioni più umili o addirittura ‘comprano’ un contratto di lavoro e pagano i contributi. Ad aggravare il carico, dando vita a un circolo perverso, l’inefficienza e i ritardi della nostra burocrazia. “Giro tuttora con la fotocopia del permesso di soggiorno -ammette Thayarai– da due anni aspetto quello nuovo e da quattro la cittadinanza italiana. Vorrei che questa città capisse le difficoltà che affrontiamo ogni giorno e vorrei che noi cittadini non italiani, dopo tanti anni di residenza, non venissimo più chiamati immigrati”. E’ la stessa speranza che coltiva il gruppo di lavoro di questo magazine, composto da Urmi Sk, Thayarai e Thayani Arulnesan, Mabel Appiah Rubi e Jessica Chinnien: essere “una redazione di giovani studenti palermitani che parla di Palermo e dei suoi deficit di cittadinanza”.
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