Da domani Marcello Dell’Utri sarà di nuovo un uomo libero. Scontata infatti la condanna a sette anni per concorso in associazione mafiosa. Si era tornato a parlare di lui già l’anno scorso, quando il tribunale di sorveglianza gli aveva concesso gli arresti domiciliari per via dei gravi problemi di salute di cui soffre. A sollevare la questione, all’epoca, erano stati non solo i suoi legali, ma anche il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, il quotidiano romano Il Tempo, la Cedu e i famigliari dell’ex senatore di Forza Italia. Da domani l’ex manager di Pubblitalia, oggi 77enne, potrà di nuovo lasciare la sua abitazione di Milano.
Dopo una breve fuga in Libano, tentata alla vigilia della pronuncia della Cassazione che ha poi reso definitiva la condanna, è stato estradato in Italia, entrando definitivamente in carcere nel maggio del 2014. Ha scontato la sua pena prima a Parma, in regime di alta sicurezza, per essere poi trasferito a Rebibbia, a Roma. Le vicende giudiziarie che lo coinvolgono ancora oggi, però, sono diverse. Oltre a essere sotto processo a Napoli e a Milano con l’accusa di aver sottratto centinaia di libri antichi, è tra gli imputati del processo d’appello sulla trattativa tra lo Stato e la mafia a Palermo. In primo grado è stato condannato a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Processo, questo, in cui per l’avvocato Di Peri, Dell’Utri non avrebbe dovuto essere nemmeno coinvolto in un secondo procedimento penale.
Come aveva spiegato durante l’arringa finale pronunciata davanti ai giudici della corte d’assise di Palermo un anno fa, i fatti per cui l’ex senatore di FI è chiamato a rispondere sono gli stessi per i quali è stato già giudicato. «Il fatto è esattamente lo stesso e cioè l’esistenza di quel patto politico-mafioso che avrebbe visto Dell’Utri protagonista, ritenuto però inesistente da una corte d’appello e poi dalla Cassazione», aveva osservato il legale. Un «patto» già vagliato dai giudici, «identico – continua Di Peri – come identiche sono le fonti di prova, i testimoni, i documenti e i collaboratori di giustizia. In questo processo si è tornati sugli stessi identici temi del processo per il concorso esterno. Tutto già visto e sentito e smontato dalla corte d’appello e poi dai giudici romani».
La sentenza passata in giudicato che ha assolto Dell’Utri dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte successive al 1992 – la stessa che lo ha condannato a sette anni per le imputazioni precedenti a quell’anno – avrebbe reso impossibile, secondo l’avvocato, la celebrazione del processo sulla trattativa. Intano in primo grado ecco arrivare la condanna. Mentre di recente, nel corso del processo d’appello, i suoi legali hanno chiesto e ottenuto dalla corte la possibilità di citare come testimone l’ex premier Silvio Berlusconi. Che è stato nuovamente iscritto nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Firenze per le stragi di Roma, Milano, Firenze, e per quella mancata dell’Olimpico e per l’agguato a Maurizio Costanzo.
Secondo la ricostruzione dell’accusa, all’epoca dell’ingresso del Cavaliere nella scena politica, Dell’Utri sarebbe diventato il nuovo tramite istituzionale dei boss di Cosa nostra, avvalendosi dei suoi rapporti con Vittorio Mangano, mafioso trapiantato in Lombardia e molto vicino a Berlusconi, per il quale lavorò anche come stalliere. E che, secondo quanto raccontato dal collaboratore catanese Francesco Squillaci, «scriveva telegrammi a Berlusconi, gli chiedeva aiuto per non essere più massacrato, solo che tornavano tutti indietro e lui poi li stracciava», ha raccontato il pentito alla stessa corte che dovrà giudicare Dell’Utri e gli altri imputati. Mangano avrebbe lamentato nelle sue missive sempre le stesse cose, «che stava male, che lo stavano facendo morire, che il 41 bis era durissimo, chiedeva di mandare qualcuno a fare un’ispezione. Mangano diceva a mio padre (Giuseppe Squillaci ndr) che Berlusconi era l’unica persona che poteva aiutare i mafiosi». Ma il giorno dell’esame, l’ex premier – sentito nelle vesti di testimone assistito – ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere, riducendo la sua visita all’aula bunker dell’Ucciardone a una veloce comparsata.
E se a rompere il silenzio, nell’appello in corso a Palermo, fosse proprio Marcello Dell’Utri? Cosa direbbe l’ex senatore accusato di essere stato uno di quei mediatori sceso a patti con Cosa nostra, che con la mafia avrebbe preso accordi, mantenendo in piedi i rapporti coi boss e facendosi intermediario delle loro richieste? Spiegherebbe anche i «grandi rapporti di amicizia con i fratelli Graviano» di cui ha parlato, nemmeno due mesi fa, sempre il collaboratore catanese Squillaci? «Mio padre mi parlò di Marcello Dell’Utri, era quello che attraverso servizi segreti deviati aveva dato questa informazione su dove fosse Contorno. I Graviano e Dell’Utri avevano un’amicizia intima, era un loro amico importantissimo», ha raccontato infatti il pentito solo poche udienze fa.
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