Non vittima, ma colluso. Almeno fino al 2015. Questo lo status che i magistrati della Dda di Reggio Calabria riconoscono a Rocco Cambria, imprenditore milazzese coinvolto nell’inchiesta Handover-Pecunia Olet, che ha portato all’arresto di oltre cinquanta persone in Calabria. Il 63enne siciliano è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per avere favorito gli interessi della cosca ‘ndranghetista dei Pesce, attiva a Rosarno e dintorni e appartenente al mandamento Tirrenico. In cambio Cambria avrebbe ricevuto non solo mera protezione, ma anche la possibilità di espandersi in un territorio, la Calabria, dove, come sottolineato dal gip Vincenzo Quaranta, non bastano le qualità manageriali. Per l’imprenditore siciliano, il giudice non ha emesso misure cautelari perché i fatti a lui imputati – per quanto concerne il patto che sarebbe stato stipulato con i Pesce – risalgono ormai a sei anni fa, fino al momento in cui la società ha dismesso il centro di smistamento di Rosarno. Ovvero la base logistica da cui partivano i rifornimenti per i supermercati, molti dei quali con il marchio Spaccio Alimentare. Dal 2015 in poi, invece, i Cambria sarebbero stati oggetto di «protezione passiva», ovvero quella derivante dal pagare il pizzo al gruppo criminale dei Cacciola.
Stando alla ricostruzione dei pm, il 63enne avrebbe attentamente evitato di entrare in contatto diretto con gli esponenti della ‘Ndrangheta. Ma non solo: a partire da fine anni Duemila l’accordo con la criminalità, inerente la cessione della logistica e del servizio di consegna della merce nei punti vendita, avrebbe previsto l’interposizione di società apparentemente pulite tra l’impresa dei Cambria e i soggetti più vicini – i cosiddetti padroncini, gli autotrasportatori – ai Pesce. A svolgere questo compito sarebbe stato in prima battuta l’azienda di Antonio Messina. Le cose cambiano nel momento in cui i Pesce decidono di guadagnare di più dai Cambria, imponendo un aumento nei trasporti. «Lo chiamiamo per dirgli (a Messina, ndr) il fatto che gli facciamo aumentare due o tre euro per i viaggi», dice Nino Pecora, all’anagrafe Antonino Pesce. A pagare l’incremento sarebbe dovuto essere Cambria, ma Messina non è d’accordo. E il motivo, per i magistrati, è chiaro: l’uomo è consapevole che l’aumento sarebbe andato ai Pesce, mentre a lui sarebbe rimasta soltanto la traccia delle entrate sui bilanci. E, di conseguenza, maggiori tasse da pagare.
«Io gli ho detto che gli faccio il mio dovere di Pasqua e il dovere di Natale, di mia spontanea volontà», prova a controbattere Messina. L’imprenditore, che avrebbe fatto da filtro tra Cambria e la cosca, ne parla con Tiberio Sorrenti, 56enne commercialista finito in carcere perché ritenuto pienamente partecipe del sodalizio criminale. Sorrenti sarebbe stato il colletto bianco a cui Cambria avrebbe delegato il mantenimento dei delicati equilibri nei rapporti con interlocutori tanto da tenere in considerazione, quanto da starci più a distanza possibile. Ciò ha fatto sì che siano poche le volte in cui l’imprenditore milazzese è stato intercettato. Una di queste riguarda proprio il momento in cui, considerata la volontà di Messina di defilarsi dall’accordo, il commercialista valuta la possibilità di puntare su un altro imprenditore che avrebbe potuto fare da schermo e al contempo contenere meglio le pretese dei Pesce. «Ma scusa, come mai questo non è pressato», chiede Cambria a Sorrenti. Il quale gli fa presente che dipende dal fatto che ha «una lontananza… è cognato di quello».
Sorrenti per Cambria sarebbe stato più di un consulente. Il professionista, infatti, era stato inserito come sindaco supplente della C.S. Calabria srl, la società che gestiva i punti vendita nelle province di Cosenza, Catanzaro e Reggio. Una sistemazione che, secondo gli inquirenti, non sarebbe stata giustificata, in quanto Sorrenti è considerato «soggetto privo di qualsivoglia esperienza imprenditoriale». Anche in questo caso la chiave di lettura andrebbe ricercata altrove, nel controllo che il commercialista poteva esercitare. «Dietro questa improbabile figura si celavano gli interessi della cosca Pesce nella gestione della grande distribuzione organizzata», scrive il gip. Dal canto suo, Sorrenti sarebbe stato consapevole dei rischi che correva ed è per questo che avrebbe chiesto a un finanziere in congedo informazioni su possibili indagini sul proprio conto. «C’è gente che non si fa i cazzi suoi», gli dice il militare, dopo avergli dato conferma dell’inchiesta. Al che il commercialista replicava sostenendo che non poteva permettersi di svincolarsi da quel tipo di clienti. «Dei Cacciola ho tutte le contabilità. Se vengono qua, che faccio… li caccio? Vengono i Pesce… li caccio?»
I momenti di stress per Sorrenti non sarebbero mancati, specialmente quando all’interno della famiglia dei Pesce sorgono invidie. Nel mirino finisce un parente che aveva chiuso con i Cambria un accordo per la locazione di un locale, soldi che l’uomo avrebbe trattenuto per sé. I vertici della cosca chiedono al commercialista di intervenire, ma Sorrenti fa presente che bisognava tenere in conto anche la possibilità che l’imprenditore siciliano potesse irrigidirsi e decidere di tirare i remi in barca. «Se ne vanno, così vivo in pace e torno nei miei ranghi. Ero un tipo che mi facevo i cazzi miei, voglio fare il mio lavoro e non avere altri problemi», è lo sfogo di Sorrenti a dicembre 2012. I guai, per lui, arriveranno poco meno di un decennio dopo.
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