Prima picchiato, poi strangolato con la
garrota (un collare che viene stretto attorno al collo della vittima finché non muore), infine il suo cadavere è stato incendiato assieme a vecchi pneumatici. È la fine che ha fatto Fortunato Caponnetto, imprenditore agrumicolo di Paternò, scomparso l’8 aprile 2015, vittima della lupara bianca. Adesso i carabinieri di Catania hanno arrestato i suoi presunti assassini, accusati di fare parte della frangia del clan Santapaola-Ercolano che opera nel territorio di Belpasso. Carmelo Aldo Navarria (54 anni), Gaetano Doria (48 anni), Stefano Prezzavento (32 anni, detenuto a Siracusa come gli altri due) e Gianluca Presti (36 anni, detenuto a Bicocca), sono ritenuti responsabili – a vario titolo – dell’omicidio aggravato e della distruzione del corpo di Caponnetto.
L’inchiesta che ha portato all’ordinanza di custodia cautelare si chiama Araba fenice, ed è partita all’indomani della scomparsa dell’imprenditore paternese. Le intercettazioni telefoniche e ambientali, i pedinamenti e le riprese video, oltre che le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Francesco Carmeci (presente alle fasi salienti del delitto) avrebbero permesso di individuare in Carmelo Aldo Navarria il capo del gruppo di Belpasso. Per gli inquirenti era uomo di fiducia di Pippo Pulvirenti ‘u malpassotu, storico capomafia, «braccio armato di Nitto Santapaola».
Navarria, ricostruiscono i carabinieri, era stato in carcere per
26 anni e mezzo. Condannato all’ergastolo (poi ridotto a trent’anni e poi a ventisei anni e mezzo), in via definitiva, per sei omicidi. Dopo la scarcerazione si sarebbe messo al comando di un gruppo alle dirette dipendenze di Francesco Santapaola, pro-cugino di Nitto, arrestato nell’aprile 2016 nell’ambito dell’operazione Kronos. Dopo avere incontrato proprio Navarria nella sua villa in costruzione, quell’8 aprile di due anni fa, Fortunato Caponnetto (conosciuto come Renato) sparisce nel nulla. Secondo gli investigatori, è stato ammazzato poco dopo.
Il movente, dicono i militari, sarebbe da addebitare a una serie di
concause. Da una parte il fatto che Caponnetto avrebbe dato, e poi negato, l’assenso ad assumere Navarria nella sua azienda, salvo poi preferirgli un’altra persona forse vicina a una diversa organizzazione mafiosa paternese. Non solo: Caponnetto avrebbe anche licenziato la moglie di Navarria, assunta fittiziamente come imposto da quest’ultimo tempo prima. Infine, l’imprenditore agricolo avrebbe causato dei dissidi con altri clan, con i quali un parente di Caponnetto avrebbe avuto un debito del quale si era fatto garante l’ex ergastolano.
Navarria, Doria, Presti e Prezzavento sono stati raggiunti in carcere dal provvedimento del
tribunale di Catania. Si trovavano già dietro le sbarre poiché accusati, e condannati in primo grado, per un’estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni della Lavica marmi, un’azienda di Belpasso taglieggiata negli ultimi mesi del 2015. Gli estorsori erano stati arrestati dai carabinieri.
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