«Perché non posso andare in Francia e in altri posti. E voi invece potete venire nel mio paese?». E’ la domanda di un ragazzo tunisino, gridata dalla recinzione del Villaggio degli Aranci di Mineo, da qualche giorno ufficialmente uno dei Cara (centro accoglienza residenti asilo) della Sicilia. Mani che si aggrappano al fil di ferro, mentre gli agenti di polizia armati, poco distanti, di vedetta alla sua sinistra, si assicurano che lui e i suoi compagni non creino disordini. Sistema convulsivamente il cappello grigio sulla testa. Lo sposta un po’ sopra la fronte. Lo abbassa. Una smorfia di delusione, mista a rabbia e tristezza, adombra i suoi sorrisi forzati. Pochi.
«Per noi l’Italia è il paradiso» urla a Giovanni, manifestante al di là del recinto. E agli altri che sono accanto a lui. Giovanni gli spiega che non possono stare lì, che lui è un tunisino e non un richiedente asilo politico. Il ragazzo, non solo “un tunisino”, lo ascolta. Annuisce. Forse, con la poca conoscenza della lingua italiana che ha acquisito da autodidatta, ha capito. O forse no. «Vengo da Lampedusa» spiega. Distoglie lo sguardo dai suoi interlocutori. Butta un occhio oltre le loro teste, dove è in scena la manifestazione contro l’ondata di arrivi. Poi si osserva i piedi. Alza la testa di scatto. Riprende a discutere: «Io non sono solo tunisino. Sono un uomo!».
E’ a questo punto che la rabbia e la delusione lasciano il posto alla disperazione. «Guarda questa faccia… lunedì o martedì non la rivedrai più qui!» urla a Giovanni indicandogli con la mano destra il suo viso. «Stai calmo. Vedrai che tutto si aggiusterà» gli spiega Giovanni, il cui tono di voce, dapprima polemico, ora diventa umano. Il ragazzo tunisino lo guarda. Scuote la testa. Si sistema nuovamente il cappello. «Sì, sì…» bisbiglia abbassando lo sguardo.
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