Non siamo una città. Siamo un incubo. Uno di quelli realistici, ma talmente esagerati che non possono essere veri. E, prima o poi, infatti, ci si sveglia. È però una lunga notte quella che stiamo vivendo da cittadini: catanesi oggi, palermitani appena un anno fa, siciliani tutti. Un sonno profondo che si rinnova a ogni tornata elettorale: cominciato come un pisolino in cui appena riposare gli occhi – ma siamo svegli, giuriamo -, ci ritroviamo a russare, incoscienti di quello che ci accade attorno. Non c’è altra spiegazione se ormai possiamo dare per istituzionalizzate alcune pratiche politiche che, fino a non troppi anni fa, sarebbero risultate inaccettabili e scandalose: tra una sincera resistenza civile e un’abbondante spruzzata di ipocrisia, chiunque volesse portarle avanti doveva almeno avere il buon gusto di non dare nell’occhio. Premura adesso sparita e non a caso: se a ogni minchiata fatta e detta, se a ogni egoismo manifesto, non corrisponde nessuna reazione, il risultato può essere solo un libera per tutti. Così, il vero volto della politica moderna è un continuo gioco di specchi con il suo elettorato. Che saremmo noi, per i più assonnati.
Erano le amministrative del 2012 quando un aspirante consigliere comunale propose nel suo programma di puntare tutto sul porto. A Paternò, nel Catanese, un paese senza mare. Aveva distrattamente copiato da un collega di Genova, il che suscitò sui giornali una certa ilarità. Quello che non siamo stati in grado di capire è che si trattava di un segno dei tempi: i programmi non li leggeva già quasi nessuno, di conseguenza redigerli – figurarsi pensarli, magari in maniera condivisa – era solo una perdita di tempo. Tempo e forze che, si capiva già, rendevano meglio se spese in cene elettorali, relazioni e promesse (anch’esse al ribasso ormai). Tolto quest’ipocrita impiccio, la moltiplicazione dei candidati annunciati – col solo sforzo di qualche cartellone pubblicitario a poco prezzo, senza neanche i simboli – appare come una ovvia conseguenza. Mal che vada, non è successo niente. Bene che vada, si rimedia un posto da qualche parte. Il fenomeno è scoppiato nella sua evidenza alle ultime elezioni comunali di Palermo: una decina di candidati nel centrodestra, agguerriti solo a colpi di comunicati stampa, e la scelta definitiva a un mese e una settimana dalle urne. E ora replica Catania, con ancora una settimana circa di tempo per battere il record dei cugini palermitani. E non uno straccio di programma neanche dagli outsider che sono pronti da mesi: a riprova dell’inutilità delle idee. Si diceva, a proposito, delle promesse clientelari: una volta un posto di lavoro specifico, già pronto per la persona; oggi più spesso una graduatoria da cui forse, un giorno, ti chiameranno. Perché se prima la clientela era l’asso nella manica di pochi, diventato l’unico motivo per andare alle urne crea una platea troppo ampia da soddisfare.
Resa innecessaria qualunque preparazione specifica e persino la credibilità di un simbolo; bastando la propria faccia in qualche cartellone e un nome in una nota stampa; la corsa alla candidatura è esplosa anche all’interno dei partiti. Che ormai parlano con tante voci quanti deputati, sindaci, portaborse hanno. È così che nel centrosinistra si fa un nome, Emiliano Abramo, e si cambia una settimana dopo con Maurizio Caserta. Uno vale l’altro. Forse nessuno lo aveva spiegato a Enzo Bianco e Giancarlo Cancelleri: non più protagonisti di scandalose relazioni adulterine nei confronti dei rispettivi partiti – e dei loro elettori -, ma amanti che si scattano selfie social. È così che se Fratelli d’Italia propone Enrico Trantino, il compagno di partito e di giunta Pippo Arcidiacono, forte della sua candidatura cartellonistica, salta su e dice: «Chi l’ha deciso?». È così che Annalisa Tardino, sulla carta commissaria della Lega in Sicilia, deve mandare una nota stampa al giorno per essere ascoltata e ricordare che, in teoria, a parlare dovrebbe essere lei. Voce muta davanti a chi nel partito porta davvero i voti e ha sempre un piede sulla porta. Ognuno corre insomma per sé. In un turbinio di nomi e frasi fatte, dove si consumano anche autentiche telenovelas: come la storia di quel candidato al Consiglio comunale che è passato dal suo appartamento in Moscova, a Milano, alla cella di San Vittore e per questo sarebbe perfetto interprete della sofferenza umana. Tanto da poter amministrare un assessorato ai Servizi sociali. Storia che, tradotta in pura cronaca, perde molto del suo romanticismo: Fabrizio Corona è stato in carcere due mesi e mezzo, per poi passare ai domiciliari a seguito di una perizia psichiatrica.
In mezzo ci siamo noi, belli e belle addormentate. Quelli che «ma tanto cosa vuoi che cambi?». Disponibile anche nella variante «tanto sono tutti uguali». Che, a seguire il filo del ragionamento, si potrebbe comunque andare a votare e mettere una x a caso, con gli occhi chiusi. Introdurrebbe almeno una novità in queste elezioni uguali a se stesse, già scritte prima delle urne e indipendenti dai nomi. E magari sveglierebbe anche noi giornalisti, tutti presi da una sola domanda pre-elettorale: «Ma adesso a questo che gli chiedo?». Niente, non chiediamo loro niente. Al fastidio per le risposte scontate abbiamo sostituito il silenzio. Che però non sa di dignità.
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