Economia

Parco nazionale dell’Etna, la proposta del segretario Pd siciliano Anthony Barbagallo: «Serve un’idea chiara per la sua fruizione»

Fare diventare l’Etna un parco nazionale. Al pari del Gran Sasso e delle Dolomiti. Un riconoscimento avvenuto già quasi trent’anni fa, nel 1995, per un altro vulcano: il napoletano Vesuvio. È la proposta, più volte sollevata negli anni, e adesso rilanciata da Anthony Barbagallo, segretario del Partito democratico siciliano e deputato dem alla Camera. Una questione che tocca assetti organizzativi ed economici e, quindi, come sempre politici. Con ovvie ricadute sulla fruizione del vulcano più alto d’Europa, spesso terreno di scontri intestini tra gli enti locali che se lo contendono.

Segretario, la sua proposta è al futuro, ma prima bisogna guardare al passato: come mai l’Etna non è già parco nazionale?
«Siamo davanti a uno di quei casi in cui l’autonomia non è ben sfruttata e la crisi finanziaria della Regione siciliana, ancora in atto, gioca il suo ruolo. È un ente ingolfato, a cui servirebbe davvero la riforma delle province, anche per disegnare una nuova architettura degli enti locali, alleggerendo la Regione. L’Etna, ad esempio, è già il parco naturalistico più importante dell’Isola e una delle mete più desiderate al mondo in base ai dati sul turismo. Nonostante questo, però, il numero di presenze sul vulcano non è eccezionale, se paragonato al suo potenziale».

Quali sono, secondo lei, i problemi principali?
«La legge che istituisce il parco regionale dell’Etna è della metà degli anni Ottanta: in quarant’anni, ha funzionato la tutela del territorio, ma non la valorizzazione. E questo vale per tutti i governi di tutti i colori. I presidenti e i commissari del parco regionale si sono sempre confrontati con situazioni difficilissime, come quella attuale in cui si deve gestire un ente del genere con solo una decina di dipendenti. Ci sono poi alcuni strumenti mai attuati, come il piano territoriale di coordinamento: una sorta di piano regolatore, che per l’Etna non c’è mai stato. Si era iniziato a fare qualcosa negli anni Novanta, ma da quel momento è fermo in Regione».

A cosa serve?
«A prendere e a fissare decisioni sullo sviluppo del territorio: dall’organizzazione delle infrastrutture, compreso l’allargamento delle strade, all’organizzazione delle escursioni e dei relativi punti di partenza, passando per la decisione sui luoghi adatti alle attività ricettive. Da tempo, ad esempio, si discute di istituire una terza zona C, cioè quella a minore tutela, dove è possibile installare delle attività, da Punta Santa Lucia alla zona di Bronte e Maletto. Va valutata la compatibilità ambientale di nuovi impianti di risalita e del trasporto dei turisti, magari utilizzando mezzi elettrici, ma non si può di certo lasciare un intero versante così abbandonato. Solo che, al momento, siamo invece fermi a una fotografia di 30 anni fa e senza neanche le commissioni tecnico-scientifiche nei parchi regionali, abolite nel 2012 con un pasticcio normativo e nel disinteresse generale. Il tema è avere un modello che funziona, come succede in altre regioni italiane».

In che modo l’istituzione del parco nazionale potrebbe aiutare?
«Beh, innanzitutto i parchi nazionali hanno più soldi, con una quota di fondi sia nazionali che comunitari, tra cui il Pnrr, da dividere tra pochi enti. E poi all’istituzione seguirebbe un’iniezione di personale, per arrivare a una pianta organica di una quarantina di unità, compresa la figura del guardiaparco, presente in tutto il mondo ma non da noi. A quel punto, anziché avere le responsabilità suddivise tra diversi Comuni, sarebbe il parco nazionale a gestire il sito Unesco: partendo dalla definizione e cura dei percorsi delle escursioni verso le zone sommitali, vera attrazione dell’Etna, alla stipula di convenzioni per le scuole con il gestore degli impianti di risalita, perché non è possibile che i giovani catanesi non conoscano la propria montagna. Ma serve un’idea chiara, che comprenda anche i prodotti tipici. Perché se è vero che il vino rosso dell’Etna è ormai un brand, non altrettanta fortuna hanno avuto le pere, ad esempio».

Ma saremmo davvero pronti a ospitare un flusso più consistente di turisti?
«Questa è una delle piaghe più dolorose. Servono più posti letto in alta quota e ci sono diverse strutture pubbliche in condizioni disastrose. Come il Grande albergo dell’Etna, a 2000 metri e con cento posti, una struttura dove hanno dormito il presidente della Repubblica Sandro Pertini, re e regine, ma dei fondi per riqualificarlo non se ne sa niente. Così come non si ha notizia delle cifre per ricostruire le strutture di Piano Provenzana distrutte dalla colata del 2002. O ancora il Villaggio Mareneve, con 70 camere, di proprietà della Città metropolitana di Catania a cui servirebbe un milione e mezzo di euro per ristrutturare; per non parlare delle strutture ecclesiastiche. Senza consumare nuovo suolo, insomma, si creerebbero posti nuovi e, insieme al settore balneare e culturale, si potrebbe davvero pensare di portare al 25 per cento la quota del turismo sul Pil siciliano, dall’8 per cento attuale».

Buoni propositi per cui non mancano solo soldi e strumenti, ma anche la serenità di programmazione, considerato quanto litigano i Comuni per la fruizione dell’Etna. Eppure avrebbero altro a cui pensare: qual è la posizione del Pd siciliano sul possibile scioglimento per mafia del Comune di Randazzo, al momento commissariato?
«Il circolo locale del Partito democratico, poco prima delle elezioni, ha deciso di non prendere alcuna posizione ufficiale di sostegno a nessun nome in lizza. Gli iscritti dem che si sono candidati, lo hanno fatto a titolo personale. Detto questo, è ovvio che continuiamo a seguire con attenzione tutto quello che accade attorno all’Etna».

A proposito di fruizione turistica e di immaginare il territorio: ponte sullo Stretto sì o no? Da segretario del partito come intende riportare l’unità sul tema?
«Per anni, anche quando il Pd era al governo, abbiamo affrontato il tema dell’attraversamento stabile valutando diverse ipotesi: ponte a tre campate, tunnel alveo o sub alveo. Il confronto è stato interrotto da un decreto legge che, con un affidamento diretto, commissiona un tipo di opera anacronistica, costosissima e con un impatto ambientale impressionante in una zona di interesse comunitario e a protezione speciale. Oggi parliamo di un’opera a cui viene data una prima e parzialissima copertura di 1,3 miliardi con i soldi già destinati alle infrastrutture della Sicilia. In sostanza, è al ponte di Salvini che diciamo no».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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