Palermo Pride, dibattito su viralità dei messaggi d’odio in rete «Denunciare per far assumere la responsabilità di cosa si dice»

«Ricevo quotidianamente centinaia di ingiurie e minacce. Ma è l’amore l’unica soluzione. E denunciare, anche». Così l’avvocata Cathy La Torre, intervenuta ieri al teatro Garibaldi alla Magione in occasione della due giorni organizzata dal coordinamento del Palermo Pride per ricordare i Moti di Stonewall del ’69. L’argomento in cui si cimenta è tra i più attuali e discussi dell’epoca attuale, l’odio ai tempi dei social, quello capace di prendere di mira chiunque e di diventare virale nel giro di pochi semplici clic. «L’ultimo episodio di violenza social contro di me è di pochi giorni fa, proprio adesso si sta discutendo in prefettura di alcune misure di protezione che dovrebbero essere rivolte alla mia persona. Nel frattempo, sono stata invitata ad abbassare i toni sui social per evitare di essere ancora bersaglio d’odio – racconta -. Sostanzialmente, mi hanno suggerito di tapparmi la bocca, di tenere un profilo basso e di censurarmi. Il silenzio per non essere più offesa e minacciata… significa che è tanta la strada ancora da fare e la voce da alzare».

Lei, che segue moltissimi casi di questo genere e di cyberbullismo nelle scuole, sa bene che chiunque sui social può essere preso di mira. «Migranti, stranieri, omosessuali, persone in sovrappeso, disabili, chiunque può diventare oggetto di ilarità. È un problema trasversale – spiega – Sui social tutto è possibile, tutto si può dire contro qualcuno cui si rischia di cambiare inesorabilmente la vita, senza neppure rendersene conto. L’esperienza mi insegna che molto spesso dietro questi istigatori d’odio ci sono persone molto sole e insoddisfatte che sfogano sugli altri la propria frustrazione». Il suo consiglio è quello di denunciare, sempre e comunque. Una lotta che è anche contro i paradossi, specie quelli generati dai social. Facebook, ad esempio, tende a bloccare per una parentesi determinata di tempo gli utenti che usano parole cosiddette d’odio, come frocio, impiegata in genere proprio per insultare e offendere.

Il problema è che l’algoritmo che scatta non è in grado di riconoscere chi usa un certo linguaggio per offendere e chi invece per denunciare chi lo ha usato con quell’obiettivo finale. Finisce insomma spesso che molti attivisti si ritrovano bloccati e tacciati di essere istigatori d’odio a loro volta. Ci vorrebbero, insomma, criteri diversi che possano andar bene anche per il nostro Paese, secondo l’avvocata, e molta più trasparenza. «Se iniziamo a segnalare questi messaggi d’odio la nostra vita cambia da così a così – torna a dire – La mia proposta è questa: troviamoci anche al Pride di Palermo a livello nazionale, istituiamo un indirizzo mail, cosa ci costa? Facciamo noi da filtro, per ogni minaccia e messaggio d’odio facciamo partire subito la segnalazione. Vogliamo che la nostra etnia non sia più continuo bersaglio. Le rivoluzioni si fanno a partire da noi, dai nostri comportamenti. Non basta sentirci dire che il problema è globale».

Le fa eco anche il collega Marco Carnabuci, avvocato della rete Lenford: «La prevenzione parte immunizzando l’ambiente in cui si vive, quindi partendo dalla scuola. Ed è l’unica medicina per sterilizzare e annullare forme di devianza culturale violenta. Alla prevenzione – spiega – deve seguire la reazione. Ne esistono due tipi: rispondiamo all’odio generando una catena che porta a una violenza maggiore. O denunciamo. L’autorità giudiziaria potrà archiviare all’inizio, ma non potrà ignorare per sempre l’esistenza del fenomeno». In molti casi di cui si sono occupati La Torre e Carnabuci gli autori dei messaggi d’odio sono stati individuati. Ma una volta contattati, quei leoni da tastiera che offendevano e minacciavano erano solo un lontano ricordo: «Si scusano subito, chiedono di ritirare la querela. Non si rendono neanche conto, e potenzialmente potrebbero colpire chiunque, anche persone che potrebbero reagire in maniera drammatica. È la denuncia che porta a galla questi episodi, e solo la denuncia può immunizzare – ripete Carnabuci – Altrimenti rimane tutto isolato, nascosto. Il percorso è lungo dal punto di vista giudiziario, ma è il percorso più opportuno per contrastare questa crescita di violenza».

Una crescita innegabile, sotto gli occhi di tutti, e che inizia a fare paura. «Dietro gli strumenti di libertà moderni si nascondono molte insidie – commenta Luigi Carollo, vice presidente del coordinamento del Palermo Pride -. Si parla di anonimato tirando sempre in ballo il tema della privacy, ma la verità è che spesso diventa strumento di protezione anche delle cattive intenzioni e strumento di offesa, in particolare quando si è visibili sui social, un fatto che può rendere anche più facile scatenare campagne di odio». Lo sa bene anche Daniela Tomasino, storica militante di Arcigay Palermo, spesso presa di mira sulle piattaforme digitali per il suo impegno come attivista. 

«L’odio in rete è anche uno strumento di politica. C’è un odio organizzato, finanziato, in rete. E non appartiene nemmeno a una sola parte politica, anche se è stato sdoganato dai grillini – spiega -. C’è chi lo fa di lavoro, con interesse e strategia. Odio vuol dire anche fake news, ad esempio». Arcigay non ha mai fatto denunce, per una questione di scelta, mentre Daniela personalmente sì. «Può essere importante anche perché molte di queste persone non sanno che portata può avere il loro messaggio d’odio, cosa può innescare. La denuncia è un modo anche per dire a queste persone di stare attenti a quello che si dice e assumersi la responsabilità delle proprie parole – conclude – La libertà di parola non prescinde mai dalla responsabilità».

Silvia Buffa

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