Tamburi, fischietti e striscioni. Quando incontriamo Pippo Laccoto, presidente della commissione Salute, Servizi Sociali e Sanitari all’assemblea regionale siciliana, sotto alle finestre di Palazzo dei Normanni va in scena l’ennesima protesta dei lavoratori della sanità. Un settore che in Sicilia non brilla da tempo, ma che dopo il Covid sembra essere del tutto imploso. Docente in pensione, originario del Messinese, Laccoto è alla sua sesta legislatura regionale, stavolta insidiata dal ricorso dell’ex collega Luigi Genovese, concluso con il rigetto e la conferma dello scranno per Laccoto. Che siede all’Ars sotto l’insegna della Lega, dopo un passato nel centrosinistra, dalla Margherita al Pd.
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La sanità siciliana è più che mai al centro delle cronache e delle proteste, ma partirei dalla questione al momento più calda: i precari Covid. Che ne sarà di loro?
«In commissione abbiamo affrontato diverse volte il tema, anche attraverso le audizioni di alcuni dei rappresentanti dei precari. Noi ci rifacciamo alla legge Milleproproghe che ha previsto la possibilità di stabilizzare queste figure, compresi gli amministrativi, purché compiano 18 mesi di servizio entro il 31 dicembre 2024 ma in ragione del fabbisogno triennale delle singole aziende sanitarie e secondo la disponibilità economica. Partendo da qui, vanno innanzitutto aggiornate le piante organiche, cosa che l’assessore alla Salute Giovanna Volo ci ha detto sarà fatta dopo la nomina dei direttori generali, presumibilmente a giugno. Si è poi convenuto che nei concorsi che via via si faranno sarà prevista una premialità per coloro che sono stati precari durante il periodo Covid: è il massimo che possiamo fare, qualsiasi altra decisione verrebbe impugnata a livello nazionale. Ma sulle piante organiche dobbiamo essere chiari: il 50 per cento andrà alla stabilizzazione, il restante 50 liberamente con i concorsi».
A proposito di cosa resta del Covid, da più parti si chiede di fare tesoro dell’esperienza, ad esempio con il ricorso alla telemedicina: su questo siamo indietro, ma si conta di lavorarci su?
«Anche questo è un tema affrontato in commissione e io stesso ho chiesto più volte che si faccia ricorso all’informatizzazione dei dati e alla digitalizzazione per aiutare soprattutto i presidi più lontani dai centri metropolitani o dai capoluoghi. La telemedicina può anche fornire una diagnosi immediata a chi ha problematiche che magari non possono essere viste subito da un medico di medicina generale o in un pronto soccorso non attrezzato. In questo senso abbiamo registrato la diponibilità dell’assessore, anche perché il Pnrr fornisce dei fondi appositi per la digitalizzazione che dovranno servire anche a migliorare il sistema sanitario regionale».
Con i fondi del Pnrr si è anche ereditato, dal precedente governo, un piano di riorganizzazione della sanità con centrali operative territoriali, case e ospedali di comunità. Un piano sulla carta ma di cui poi non si è saputo più niente…
«In questo momento ci sono le somme destinate a queste strutture che hanno una concezione diversa rispetto al passato: non ospedale-centrica ma orientata a una medicina territoriale di prevenzione, un’idea su cui si sta lavorando. È chiaro che però alle strutture va aggiunto il personale, senza il quale il sistema non potrà funzionale. Noi tra l’altro scontiamo già l’emergenza dei nostri pronto soccorso, tra la mancanza di medici e le lunghe liste d’attesa: una pressione che va alleggerita anche attraverso questa nuova visione di medicina del territorio e preventiva».
A proposito di lunghe attese dei cittadini-pazienti, un problema attuale ed ereditato dalla scorsa amministrazione regionale è proprio il blocco al ricorso all’extra budget imposto ai privati convenzionati. Pochi soldi e troppe richieste di esami, con il risultato di attese ancora più lunghe. Come si rivolve?
«Per il passato non possiamo fare nulla, ma come commissione abbiamo già chiesto per il 2023 un adeguamento delle tariffe per i convenzionati. In più si dovrà lavorare su una riforma che preveda la possibilità per i privati di partecipare attivamente alla diminuzione di queste liste d’attesa, perché non è possibile che per fare una tac ci vogliano dai sei mesi a un anno nel servizio sanitario pubblico. I convenzionati devono essere visti come un aiuto: oggi partecipano al 25 per cento e si può certo trovare un equilibrio, ma le tariffe dovranno essere adeguate».
Ma la sua posizione personale qual è: Il ricorso ai privati nella sanità è la bestia nera o la salvezza?
«Il sistema principale dovrebbe certamente essere il pubblico, ma la collaborazione dei privati non può diventare un tabù. Abbiamo delle deficienze, dovute anche a piante organiche inadeguate e alla mancanza di medici in settori strategici, come i medici di pronto soccorso e gli anestesisti, ma bisognerà rivedere l’apporto dei privati evitando di creare una copia del servizio sanitario nazionale e puntando piuttosto a offrire in convenzione i servizi che si stenta a dare nel pubblico».
Già che parliamo di snellire, nei nostri ospedali si assiste anche a una lunga burocrazia per gli ambulatori dedicati ai malati cronici: continui rimpalli dal medico generico allo specialista, lunghe attese ai call center telefonici e il tutto per cure periodiche e prevedibili. Su questo non si potrebbe lavorare?
«Ci troviamo in un momento particolare post-Covid, in cui avremmo fatto almeno 50 audizioni, quindi ci rendiamo conto dello stato della nostra sanità regionale. Abbiamo focalizzato quali sono le carenze e crediamo che proprio rivedere il sistema nell’ottica della medicina territoriale possa aiutare anche i malati cronici: ad esempio potendo ricorrere alle case di comunità, non dovendo andare sempre in ospedale, magari a chilometri di distanza. Certo, passeranno almeno un paio d’anni affinché queste strutture siano a regime, ma nel contempo dobbiamo rivedere anche il sistema territoriale, perché finora abbiamo dato importanza quasi solo alle piante organiche dei presidi ospedalieri e invece va appunto rivisto anche il sistema degli specialisti convenzionati».
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