A Salvatore Giuliano gliela «sucava» anche Messina Denaro. Non si tratta di un omaggio al celebre bandito di Montelepre, ma un pezzetto della narrazione che dal 2013 è stata fatta dell’omonimo capomafia di Pachino. A ricostruirla sono i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catania, che ieri in collaborazione con la Squadra mobile di Siracusa hanno inferto un duro colpo alla criminalità organizzata attiva nella parte meridionale della provincia siracusana. Un’area, che si spinge fino a Portopalo di Capo Passero, in cui la mafia ha la capacità di gestire non solo i business strettamente criminali – come il traffico di droga – ma anche di inquinare l’economia regolare, a cominciare dal settore ortofrutticolo. Fatto non solo di pomodorini, ma anche di angurie e zucchine.
Per farlo, Giuliano aveva deciso di calarsi nei panni altrui e – almeno sulla carta – sporcarsi le mani come gli altri agricoltori. La costituzione della Fenice srl è la mossa con cui nel 2013, pochi mesi dopo essere uscito dal carcere, il capomafia decide di rimettersi in gioco. Un debutto che non molto tempo dopo gli viene riconosciuto dal consorzio di tutela del pomodorino Igp, di cui diventa socio, per poi esserne espulso per morosità soltanto a inizio 2018. L’azienda agricola – ufficialmente intestata al figlio Gabriele e a Simone Vizzini, erede a sua volta di Giuseppe, il braccio destro di Giuliano – secondo la Dda è soltanto la facciata di un agire criminale che non si discosta da quanto compiuto dal boss nei decenni precedenti. Stessa arroganza, stessi soprusi. «Giuliano aveva un magazzino di ortaggi e pomodori, è riuscito a imporre agli operatori del settore di vendere il prodotto esclusivamente a lui, in regime di monopolio», racconta ai magistrati il collaboratore di giustizia Piero Monaco, prima di ritrattare le proprie rivelazioni e uscire dal programma di protezione.
Ma per inquadrare al meglio il personaggio bisogna fare un passo indietro e ripercorrerne la carriera. Sono da poco iniziati gli anni Ottanta, quando Giuliano, appena ventenne, viene arrestato più di una volta con accuse che spaziano dal traffico di sostanze stupefacenti al possesso di armi, fino all’usura. Talenti criminali manifestati sotto gli occhi dell’allora boss Concetto Mauceri, del quale nel giro di un decennio diventa punto di riferimento. Negli anni Novanta, Giuliano viene coinvolto in più operazioni antimafia – nel ’93 Bacco, nel ’98 Titano – a riprova di come la sua sia oramai una figura di vertice della cosca, fino a prenderne le redini alla morte di Mauceri e dare il proprio nome al gruppo. A tal proposito, i collaboratori di giustizia Maurizio Avolese e Luigi Caruso raccontano che Giuliano, all’epoca poco più che 40enne, organizzava cerimonie di affiliazioni in carcere. Sono gli anni in cui il clan ha legami oltre provincia, come i Cappello di Catania, mentre è in aperta rivalità con i Trigila di Noto, guidati da Antonino Pinnintula. Proprio nell’ottica di evitare un’escalation di violenze, Giuliano e Trigila stabiliscono la spartizione degli affari: al primo spettano le estorsioni al mercato ittico di Portopalo e lo spaccio della droga, al secondo la riscossione del pizzo negli altri settori commerciali. Prosegue così un’ascesa che Giuliano, tuttavia, è costretto a seguire quasi per intero da dietro le sbarre, restando detenuto praticamente ininterrottamente dal 1993 al 2013.
Il secondo apparente capitolo della vita del boss inizia con il ritorno in libertà. Ormai 58enne, Giuliano rimette piede a Pachino. Per i magistrati i suoi propositi sono chiari: continuare una storia mai interrotta, ma con una possibilità in più. Quella di fare sentire la propria presenza fisica sul territorio. Tanto nelle piazze, quanto tra le serre agricole. C’è anche un’altra novità: i dissapori con Pinnintula sono rientrati, anzi è proprio quest’ultimo che, nell’estate del 2012, ammette di volere dare la propria benedizione all’ormai ex rivale: «Quando esce (dal carcere, ndr) gli di dico: “Al di fuori di questo, prenditi tutto in mano», dice Trigila in carcere, senza sapere di essere intercettato. Ciò trova la riconoscenza di Giuliano che di lì in avanti si ricorda dei familiari di Pinnintula, ai quali gira un quarto degli introiti derivanti dalle estorsioni. «Ture, quando esci, che comandi, un pezzo di pane per me vedi se ci può uscire», ricostruisce Giuseppe Vizzini, citando le parole che a detta di Giuliano avrebbe pronunciato Trigila.
A riconoscersi capacità diplomatiche è d’altronde lo stesso capomafia. «Se poi litighiamo con quello e quell’altro non abbiamo amici da nessuna parte. Io con la buona politica li ho messi, come si dice, li ho messi in un angolo», dice Giuliano al fidato Giuseppe Aprile – anche lui arrestato nel blitz di ieri insieme ai fratelli Giovanni e Claudio – per spiegare la strategia utilizzata per garantirsi il rispetto delle altre consorterie mafiose. Disponibilità al dialogo che però non andava confusa con timori e sudditanze. Tutt’altro. Ed è qui che, come esempio, entrerebbe in gioco il superlatitante di Castelvetrano. A raccontare l’aneddoto, sulla cui veridicità non ci sono riscontri, è sempre Vizzini. Cinquantaquattrenne conosciuto come u Marcuottu, l’uomo non manca occasione per manifestare ammirazione per il capomafia. «Qui è venuta gente da Trapani per un fatto di trasporti, cose nella zona di Palermo – dice Vizzini al suo interlocutore nell’estate 2015 -. Minchia, mai I’ho visto a Ture così. “Me la suca macari Messina Denaro, fateglielo sapere. Perché lui lo sa come funziona, qui comandiamo noi“». La presa di posizione, stando a Vizzini, sarebbe seguita all’indisponibilità degli emissari del boss castelvetranese ad accettare l’autorità di Giuliano sul territorio.
Alle intimidazioni, però, il capomafia di Pachino preferiva però la ragionevolezza. Come nel caso in cui accetta di fare da mediatore tra il poliziotto Nunzio Scalisi – arrestato con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso – e le pretese dei proprietari dell’appartamento in cui l’uomo vive, colpevoli di pretendere il pagamento dell’affitto, o del banchetto organizzato a ottobre 2015 nei locali de La Fenice con numerosi produttori agricoli. Occasione di convivialità che, nelle intenzioni di Giuliano, doveva servire a mettere in chiaro chi comandava e quali fossero le regole per ambire alla commercializzazione degli ortaggi, senza incorrere in spiacevoli contrattempi. Nulla che non poteva essere evitato con un buon e insospettabile barbecue. D’altronde, appena quattro mesi fa, lo stesso Giliuano assicurava a MeridioNews: «Io, il boss? Mi devono dire in questi anni in cosa ho mafiato». La notte prima, a Pachino, qualcuno aveva ordinato l‘incendio del capannone di un’azienda agricola. Una vicenda su cui la polizia continua a indagare.
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