Otto marzo: tra parate, mimose e dibattiti sul femminicidio «Sarà una vera festa solo quando avremo diritto di scelta»

Oggi Palermo si è svegliata all’insegna dei tanti appuntamenti organizzati in città per festeggiare l’8 marzo. Ma al di là di auguri insistenti, ramoscelli di mimosa venduti all’angolo di ogni semaforo o parate fatte dei soliti striscioni e di cori già sentiti, qualcuno ha pensato di sfruttare il giorno dedicato in tutto il mondo alla donna per tornare a parlare di violenza di genere e di femminicidio. Sono i temi affrontati questa mattina al cinema Rouge et Noir di piazza Verdi, in un convegno organizzato dal centro studi Pio La Torre, dove relatrici d’eccezione si sono cimentate in riflessioni e dibattiti di fronte a una platea di giovani studenti. Una scelta che appare oggi meno insolita, alla luce di quanto raccontato dalle cronache solo fino a ieri, con la notizia dello stupro di gruppo di una 24enne di Napoli e l’omicidio di una ragazza nel Messinese. Cosa c’è esattamente da festeggiare, da rivendicare, se ancora non esiste una piena e adeguata coscienza di cosa significhi l’essere donna e subire un sopruso, una violenza in virtù dell’esserlo?

«La violenza nei confronti delle donne si conferma come una violenza intima, pur non essendo qualcosa che rimane relegata nella dimensione privata e protetta delle quattro mura di casa», spiega subito la professoressa Alessandra Dino, docente di Sociologia della devianza all’università di Palermo e coordinatrice di un progetto di ricerca ministeriale che coinvolge cinque università italiane a proposito delle rappresentazioni sociali del femminicidio, con un’attenzione particolare alle sentenze pronunciate in ambito giuridico. «Occorre leggere il problema della violenza sulle donne a partire dal loro essere donne. La caratteristica della violenza di genere è che non è una violenza quantitativamente eccessiva ma è caratterizzata da alcune specificità – continua -. È un problema culturale che chiama in causa il modo in cui è costruita l’immagine pubblica di donna e quella di uomo». Un’immagine profondamente modellata sul racconto veicolato quotidianamente dai media e anche dalle sentenze pronunciate dentro le aule dei tribunali dove, malgrado i recenti passi avanti, la donna in quanto parte offesa, in gergo, è comunque posta in secondo piano rispetto al responsabile di un atto di violenza.

«Gli studi fatti in questo campo dimostrano che c’è un rapporto stretto fra genere e violenza, cioè che la violenza è uno degli elementi che costruisce il genere. Se una donna viene aggredita tira i capelli, se viene aggredito un uomo questo reagisce con calci, pugni, colpendo determinate zone del corpo, ad esempio. I media aiutano a costruire l’identità di genere e talvolta, però, danno delle istruzioni per l’uso della violenza». Ma da cosa nasce la violenza di genere? «Da una relazione sbilanciata di potere, dove si cerca di dominare l’altro – prosegue la professoressa Dino -. È una violenza sistemica e ripetuta, non è un raptus, non è occasionale e non è isolata. Ci sono elementi predittivi, è una violenza che ha un iter, uno sviluppo, non è mai un fulmine a ciel sereno, semmai lo è solo per chi guarda dall’esterno». Una violenza che cambia nel tempo e in relazione alle diverse circostanze storiche, ma che si perpetua. E a contraddistinguerla è quasi sempre il tasso di efferatezza destinato alla vittima: «Quello che viene fuori dai femminicidi è la crudeltà – ribadisce la docente -. C’è un accanimento sul corpo della donna come a volerla punire di qualcosa che non avrebbe dovuto commettere, brutalizzandola per renderla irriconoscibile. Ci si accanisce spesso proprio sul viso come a volerne cancellare l’identità. Non ti voglio solo uccidere, ti voglio distruggere completamente». Una brutalità che cammina a braccetto con la volontà di degradare e umiliare la vittima, ridotta a oggetto.

In Italia, tuttavia, non esiste un allarme femminicidio. Anche se nel tempo gli omicidi degli uomini sono diminuiti, mentre quelli delle donne sono rimasti uguali. Solo nel 2017 sono state 123 le donne uccise da un uomo, il più delle volte un compagno, un ex partner o qualcuno che conoscevano. Di storie del genere, Mirella Agliastro, ne ha sentite parecchie. Stimata magistrata che per diversi anni ha lavorato anche al tribunale di Palermo, che oltre a citare vecchi casi e a chiarire alcuni aspetti prettamente normativi e giuridici, e per ribadire l’importanza del «diritto di scelta». Concetto ancora in fase di elaborazione tanto sul piano della giurisprudenza quanto su quello sociale e culturale, che attende di essere riconosciuto e rispettato «perché l’8 marzo diventi una vera festa». «È un diritto che vogliono reprimere quegli uomini che smettono di essere amati e scelti da una donna, e che quindi decidono che questo diritto non deve essere più realizzato – spiega -. Ma io donna ho il sacrosanto diritto di lasciare un uomo». E di restare viva, dopo averlo fatto, s’intende. «Ancora oggi in Cassazione mi occupo di casi di maltrattamenti e di stalking, reati gravissimi che però non danno fama e visibilità e che vengono trattati come tanti altri. Quando invece, secondo me, dovrebbe addirittura avere delle corsie acceleratrici come i reati di mafia – osserva la magistrata -. Non basta parlare di norme e numeri, che di per sé già impressionano. Parliamo anche del diritto alla dignità, dell’essere considerate e valutate persona degna di essere rispettata».

Basta fidarsi, insomma, di chi a parole promette amore ma che nei fatti isola e danneggia. «Non vestirti così, non uscire con queste persone, non usare il telefono» sono già tutti dei palesi indicatori che qualcosa non sta funzionando, nel rapporto con un uomo. Sono circostanze che già da sole bastano, prima ancora che si arrivi a innescare anche una violenza fisica, a far scattare campanelli d’allarme. Quelli che spesso possono salvare la vita. È quello che, tra le altre cose, si ripromette di far comprendere anche il progetto intitolato Amorù. Rete territoriale antiviolenza – Troppo amore uccide, promosso dall’organizzazione umanitaria Life and Life con il sostegno di Fondazione con il SUD, che vede anche il centro Pio La Torre tra i suoi partner. 

Silvia Buffa

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