Oriana ieri, oggi e domani: intervista con la Storia

Le lacrime che dai nostri occhi vedete sgorgare non creditele mai segni di disperazione promessa, sono solamente promessa di lotta.

(Alekos Panagulis – Vi scrivo da un carcere in Grecia 1974)

Oriana Fallaci al “Vittoriano” di Roma. Una cornice per racchiudere una donna, una scrittrice, “un giornalista” (come lei stessa amava definirsi) tra le più discusse del panorama contemporaneo. Quella che forse meglio di chiunque altro, nell’America delle tribune politiche e della “TV spazzatura”, ha incarnato tutta l’ambiguità del prodotto culturale “made in Italy”.

Della Fallaci si è parlato tanto, si è scritto fin troppo. Che si trattasse di (poche) ferventi apologie o di (molte) irose filippiche, poco importa. Sono stati spesi fiumi di inchiostro. Come lei voleva.

Esattamente come voleva la vecchia, bizzarra signora che aveva perso la sua ultima battaglia: quella contro l’aggressivo “alieno” nascosto dentro il suo corpo (la sua malattia). Ma che contro i demoni delle ideologie perverse voleva ancora strenuamente combattere.

Perché la letteratura, qualcuno ha detto, può essere un’arma. Può (e in certi casi deve) far male.

Deve distruggere, sabotare.

Ci vuole coraggio a non rifugiarsi nel piatto, confortevole conformismo dei benpensanti. Talvolta anzi sembra quasi avventato discostarsene come se si avesse paura di abbandonare un sentiero già percorso. Ma la Fallaci di coraggio ne aveva da vendere.

Raccontare la Fallaci. A raccontarla, lei che per lunghi anni si era chiusa in un bozzolo di ostinato silenzio, questa volta è bastato l’impenetrabile quiete del “Vittoriano”; sono bastate le immagini, i filmati RAI, gli oggetti che ha amato e che le appartenevano. I libri più o meno consunti su cui lasciava labirintiche iscrizioni a penna, gli eccentrici cappellini che sapeva indossare con estrema naturalezza, le fotografie che colgono il guizzo degli occhi arguti. Occhi di chi è abituato a sviscerare la verità come su un tavolo operatorio.

I reportage dal Vietnam terra spietata, che l’ha ferita nel corpo e nell’anima.

Una storia d’amore, quella con Alessandro Panagulis, che la Fallaci racconta nel libro “Un Uomo” (1979), definito dalla stessa autrice, durante un’intervista: “Un libro sulla solitudine dell’individuo che rifiuta di essere catalogato, schematizzato, incasellato dalle mode, dalle società, dal potere (…) un libro sull’eroe che si batte da solo per la libertà e per la verità, senza arrendersi mai, e per questo muore ucciso da tutti: dai padroni e dai servi, dai violenti e dagli indifferenti”.

Che ci piaccia o no, la Fallaci, la Storia l’ha vissuta, l’ha “intervistata”, l’ha fatta. Nel bene e nel male.

Maria Concetta Trovato

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