L’uomo nero è il decimo film di Sergio Rubini. Una commedia costellata di piccoli bagliori drammatici, ambientata in un paesino della Puglia negli anni sessanta. Ernesto Rossetti (Sergio Rubini), è un capostazione che avrebbe voluto fare altro nella vita, ovvero il pittore professionista. Ha una moglie, Franca Rossetti (Valeria Golino), insegnante in una scuola media, e un figlio, Gabriele Rossetti (Guido Giaquinto), bambino fantasioso e irrequieto, influenzato dai sogni che la madre gli racconta, e dallo zio Pinuccio Rossetti (Riccardo Scamarcio), il tipico vitellone ozioso amante delle donne. Agli occhi del bambino, lo zio è un modello da seguire.
Ernesto, spinto dalla voglia di dimostrare agli altri il suo valore, decide di allestire una mostra in onore di un pittore che ha sempre ammirato, Paul Cézanne. Dovrà però scontrarsi con le invidie e il falso sapere del prof. Venusio e dell’avvocato Pezzetti, i quali, dopo aver partecipato all’esposizione, lo affondano senza mezzi termini, mettendolo in ridicolo davanti a tutto il paese. Il capostazione però non demorde e, dopo un breve momento di sconforto, escogita un piano per fargliela pagare.
Il film è interamente costruito sui ricordi del figlio Gabriele, tornato – ormai adulto – nel luogo della sua infanzia per una grave malattia del padre. Lì comincia a richiamare alla memoria il periodo passato nel paesino pugliese, scoprendo verità fino ad allora solo immaginate.
Sergio Rubini, in poco più di novanta minuti e senza mai essere melodrammatico o misticheggiante, ci mostra come la provincia riesca a opprimere gli spiriti diversi. Anche il ruolo della critica, apparentemente sbeffeggiato attraverso i due personaggi che la incarnano, non è qui messo in discussione: Rubini polemizza con chi crede di essere la critica e invece non lo è.
C’è poi un altro aspetto, il rapporto tra padre e figlio. Ernesto, oppresso da un ruolo affibbiatogli dalla comunità e che non gli spetta, dà poca importanza ai veri bisogni del figlio, il quale cerca conforto nello zio. Ma il ragazzino ha un’altra arma, la fantasia, che gli permette di vedere ciò che gli altri non percepiscono.
“L’uomo nero” è una storia come tante altre, dalle sfumature fiabesche. Siamo nel meridione d’Italia, un meridione però che non è sinonimo di far West, né di guerre apocalittiche. Non ci sono pistole, non ci sono uomini d’onore, non ci sono musi lunghi. Un meridione solare, sotto tutti i punti di vista, dove anche gli avvenimenti più imbarazzanti vengono affrontati con una risata. Ernesto non è mostrato mai come una vittima: piange, ma subito dopo si mette di nuovo a lavoro. Il personaggio tratteggiato da Rubini non è un uomo che voleva cambiare il mondo: al contrario, Ernesto se ne prende gioco, a partire proprio da quei provinciali e provincialismi di cui fa parte. Tutti aspetti che rendono il film semplice, ma non banale. Una visione leggera e immediata, ma che non lascia andare via lo spettatore senza spunti di riflessione.
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