«Bisogna perseguire i veri trafficanti, che esistono ma che non siamo noi». Lo ripete più volte Regina Catrambone, nel corso di una mattinata in cui per circa due ore non si è sottratta alle numerose interviste dei giornalisti, giunti al porto di Catania, in occasione dell’ultimo sbarco di migranti. Ad attraccare intorno alle 7 è stata la nave Phoenix dell’organizzazione non governativa Moas. L’Ong, di cui Catrambone è co-fondatrice insieme al marito Christopher, è tra quelle sospettate di avere operato in mare con modalità poco chiare e addirittura con il rischio di avere favorito, più o meno indirettamente, l’interesse dei trafficanti libici.
Accuse che, tra una caramella e la ricerca di uno squarcio di ombra sul molo di Levante, Catrambone ha respinto al mittente. Anche se tiene a ribadire che finora sono rimaste tutte voci, utili a chi vuole strumentalizzare l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. «Tutti mi chiedete del procuratore Zuccaro, io non lo conosco, finora non ho mai avuto mai modo di parlarci né abbiamo ricevuto richieste dall’autorità giudiziaria – ha dichiarato Catrambone -. Non avremmo problemi a portare tutti i documenti che possono servire a fare chiarezza, compresi quelli finanziari, ma per ora c’è stato solo caos mediatico. Le indagini – ha sottolineato – andrebbero fatte nei tribunali e lì dovrebbero rimanere». D’altra parte, fino a oggi è stato lo stesso capo della procura etnea ad ammettere che gli elementi in possesso della magistratura non sarebbero utilizzabili a fini processuali. «Noi abbiamo sempre lavorato rispettando le regole e sotto il coordinamento della guardia costiera», ha affermato la co-fondatrice di Moas, ripetendo di fatto la ricostruzione già fatta in precedenza dai responsabili della Ong davanti al comitato Schengen e alla commissione Difesa del Senato.
Ed è proprio dalla politica che arrivano gli altri attacchi. C’è chi, come per esempio il senatore della Lega Nord Sergio Divina, ha sottolineato come l’operato delle Ong, limitandosi al soccorso di chi è in difficoltà e non al contrasto dei trafficanti, di fatto favorirebbe l’arrivo in Italia dei migranti. «Le Ong non sono la polizia. Io sono lì per salvare la persona, in quel momento c’è una persona che sta morendo in mare e va salvata». Catrambone ha poi invitato i politici «a fare il loro lavoro, cercando con diplomazia di migliorare la redistribuzione di queste persone e provando a creare stabilità in Libia». In merito ai rapporti con il paese nordafricano, la donna ha sottolineato di non esserci mai stata né tantomeno di avere «mai ricevuto telefonate da scafisti e trafficanti». Sull’ipotesi che esista un telefonino da cui sarebbero partite più richieste di soccorso nel corso del tempo, Catrambone si è lasciata andare a una battuta. «C’è un telefono satellitare che viaggia con un piccione viaggiatore? Questa non la capisco – ha detto -. Se c’è questo telefonino perché non chiamano le persone che lo hanno? Vadano in Libia. Abbiamo un’ambasciata italiana lì. Non è difficile arrivare in Libia, è a un tiro di schioppo dalla Sicilia».
Se sulla presenza di ex militari in Moas Catrambone ha tagliato corto – «non capisco, i militari sono delle persone poco serie?» – si è, invece, soffermata maggiormente sulla vicinanza alla Ong di Ian Ruggier, ex ufficiale maltese in passato accusato di avere voltato le spalle proprio alle richieste dei migranti ed essere stato protagonista della repressione delle proteste nell’isola del Mediterraneo. «Capita che bisogna eseguire certi ordini – ha detto rivolgendosi a un giornalista -. Ruggier ha avuto la possibilità di prendere un’altra strada e lo ha fatto. Abbiamo ingaggiato militari per dare professionalità alle nostre operazioni, io sono una civile». Tra i temi trattati anche quelli riguardante la strumentazione in dotazione di Moas: «I droni sono costati oltre un milione di euro? Non li abbiamo più, comunque abbiamo sempre cercato di avere strumenti di qualità senza risparmiare sulla sicurezza e un drone che atterra in maniera sbagliata in una nave potrebbe causare vittime».
Sulla questione transponder, la posizione di Moas è netta. «Non li abbiamo mai staccati, se è capitato che il segnale non arrivasse bisognerebbe capirne il motivo tecnico. D’altronde noi andiamo in teatri di guerra, perché dovremmo toglierci l’incolumità che ci dà il satellitare, che fa sì che la guardia costiera, se succede qualcosa, ci veda e possa intervenire?». Ultima battuta sulle parole di Frontex secondo cui l’avvicinamento della linea dei soccorsi alle coste libiche non ha ridotto il numero di morti in mare: «Non ci risulta e comunque loro muoiono lì, le altre forze stanno più indietro, lontane. Che senso ha?», conclude Catrambone.
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