Omicidio Lia Pipitone, due boss condannati a 30 anni Il padre chiese di ucciderla perché voleva essere libera

I boss Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia sono stati condannati a 30 anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale per l’omicidio di Lia Pipitone, la figlia del boss dell’Acquasanta Antonino Pipitone. La donna, violando le regole di Cosa Nostra, non aveva accettato di troncare una relazione extraconiugale. Ai due mafiosi – ritenuti gli esecutori del delitto, concordato con il padre di Lia – è stata imposta la libertà vigilata per tre anni a pena espiata. Alle parti civili, marito e due figli della vittima assistiti dall’avvocato Nino Caleca, è stata riconosciuta una provvisionale di 20mila euro ciascuno. 

Lia Pipitone venne uccisa il 23 settembre 1983, quando aveva 25 anni, dopo una sparatoria seguita ad una rapina, messa in scena per depistare le indagini. I collaboratori di giustizia, che dopo anni dal delitto hanno rivelato colpevoli e moventi, hanno raccontato che a chiedere la punizione per la vittima, che aveva una relazione extraconiugale che non voleva troncare e che gettava discredito sulla famiglia, fu proprio il padre della donna, il boss dell’Acquasanta Antonino Pipitone.

«Mio fratello Andrea, all’epoca responsabile della famiglia mafiosa di Altofonte, mi ha riferito che il padre di Lia aveva deciso la punizione della donna perché non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa», ha raccontato il pentito Francesco Di Carlo agli inquirenti. E ancora, si legge nel verbale del pm Francesco Del Bene sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia: «Secondo la regola di Cosa nostra, Nino Madonia ha convocato Nino Pipitone al quale ha comunicato la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia, circostanza a cui il padre non si è sottratto nel rispetto della mentalità di Cosa nostra». Quindi Madonia ha convocato Vincenzo Galatolo per affidargli l’esecuzione materiale dell’omicidio.

Lia Pipitone a 18 anni si innamora tra i banchi di scuola e decide di scappare di casa per sposarsi. I padrini, su indicazione del padre, si mobilitano per cercare la giovane coppia. La trovano in un paesino della provincia e Lia è costretta a tornare a Palermo, portandosi dietro la sua voglia di libertà. Che non si ferma neanche quando nel quartiere comincia a girare la voce che lei, la figlia del boss, esce troppo da sola e si frequenta con un altro uomo. Quando una sera a cena comunica al padre padrone che ha deciso di andare a vivere per conto suo senza il marito, Pipitone si alza e le sputa in faccia. È l’estate del 1983

Il 23 settembre di quell’anno avviene l’omicidio, per cui molti anni dopo finisce in carcere il padre di Lia, che viene poi assolto per mancanza di prove. L’inchiesta viene riaperta anni dopo dai pm Antonio Ingroia e Francesco Del Bene dopo la pubblicazione del libro Se muoio sopravvivimi, scritto dal figlio della donna, Alessio Cordaro, che aveva quattro anni quando morì la madre, e dal giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo. Pipitone nel frattempo è morto, e finiscono sotto processo i due mafiosi responsabili del delitto su richiesta dal padre della vittima.

Il giorno dopo l’’omicidio della giovane, viene trovato morto anche Simone Di Trapani, il lontano cugino con cui Lia negli ultimi mesi si era confidata. Un rapporto speciale. Per Simone, Lia era la sorella che non aveva mai avuto. Lei diceva spesso che Simone era il marito ideale. Morto dopo un volo dal balcone di casa sua. Un suicidio, si disse. In realtà, un’’altra messinscena dei sicari della mafia che prima di spingerlo giù dal quarto piano, lo costrinsero a scrivere un biglietto: «Mi uccido per amore».

Redazione

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