«Ci siamo guardati prima che fuggisse. Sono rimasto pietrificato, pronto a incassare un colpo anche io». A spaventarlo è quello che ha visto solo pochi istanti prima, quando «rumori di legno» attirano la sua attenzione e lo convincono a svoltare per via Turrisi. Sono circa le 20.40 del 23 febbraio 2010 e in un angolo steso per terra c’è l’avvocato Enzo Fragalà. Sopra di lui, secondo la ricostruzione del testimone oculare ascoltato oggi dalla prima Corte d’Assise, c’è un uomo alto circa 1,85 vestito di scuro che lo percuote con un bastone. «Ricordo i tratti meridionali dell’aggressore, la sua carnagione più scura della mia, la sua altezza, il suo essere più robusto rispetto a me e quel casco integrale decorato con adesivi colorati a forma di fiori di marca Guru. Ricordo anche che indossava un bomberino scuro chiuso fino al collo, sembrava impostato», racconta in aula il testimone. Quella sera lui stava passeggiando insieme al suo cane, a pochi passi da casa. Poi, ad appena quattro metri da lui, quella scena terribile.
Assiste alla fase finale dell’aggressione al penalista, scorgendo gli ultimi due colpi inferti col bastone poco sotto al collo. «In mano, non saprei dire con quale però, brandiva con forza bruta un bastone di legno, simile alla gamba di un tavolino, non ricordo se fosse tondo o squadrato». L’aggressore si accorge della sua presenza e fugge via allontanandosi in direzione del plesso della scuola Capuana. Ma non corre, cammina a passo svelto. Il testimone è il primo, delle persone presenti in quel tratto di strada quella sera, che si avvicina all’avvocato, rimasto a terra, per aiutarlo. «Cercava di alzarsi e di parlare, ma non ci riusciva – continua il teste -. Non ricordo urla da parte dell’aggressore, né persone che tenevano l’avvocato, ho visto solo una persona. Ricordo però il rumore del bastone che cade, ma non so se è successo subito dopo l’aggressione o durante la fuga».
Dopo il testimone oculare è il turno del medico legale che il 27 febbraio 2010 ha esaminato il corpo di Fragalà, il professore Paolo Procaccianti, dopo tre giorni di ricovero al Civico. «È morto per le gravi lesioni craniche ed encefaliche determinate da un corpo contundente», puntualizza subito. Le lesioni sul quel corpo sono numerose, alcune suturate e medicate durante il ricovero in ospedale. La parte più bersagliata è stata la sinistra, la destra invece resta «pulita» da ferite e colpi. «Aveva lesioni sotto all’orecchio sinistro, due piccoli ematomi nella regionale frontale, frattura delle cartilagini nasali, ematomi nella parte interna di entrambi gli avambracci, che lasciano presumere che lui abbia tentato di difendersi alzando le braccia, e una lesione contusiva nella gamba sinistra: tibia e perone erano rotti».
Proprio la lesione alla gamba, che il medico definisce a «stampo», gli ha permesso di ricostruire l’impronta dell’arma usata e le dimensioni approssimative, non inferiori a 2×21 centimetri: «Un mezzo stretto e lungo, ma pesante e di materiale consistente, occorre una massa importante per determinare quelle ferite, legno o metallo o plastica molto dura – spiega -. Notevole forza viva per infliggere quelle lesioni, soprattutto quelle al cranio». Infine, è la volta del tenente colonnello Antonio Coppola, all’epoca comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, sentito oggi non solo in merito al suo intervento la sera stessa dell’aggressione, ma anche al fine di ricostruire le connessioni e i rapporti fra i mandamenti mafiosi di Porta Nuova, Palermo Centro e Borgo Vecchio. In aula parte dal racconto di un altro pestaggio, avvenuto il 19 maggio 2010, solo pochi mesi dopo quello subito da Fragalà. Un episodio che all’epoca lo colpisce subito, per via delle analogie con quello del penalista, dalle modalità usate per colpire la vittima designata ai protagonisti coinvolti: Francesco Castronovo, Salvatore Ingrassia e Antonino Abbate, imputati per l’omicidio dell’avvocato.
«Nella conversazione captata quel giorno intorno alle 18 si capisce che si stavano organizzando per qualcosa che dovevano fare in serata, una spedizione punitiva, si parlava di procurarsi un martello – spiega il teste -. Abbate sarebbe stato presente sul posto ma non doveva farsi vedere dalla vittima. Lo stesso è stato visto poi allontanarsi a bordo di una Smart nelle vicinanze del posto dell’uomo designato, raggiunto poi dagli altri due a bordo di una Vespa blu». Coppola è anche uno degli uomini che interviene in via Turrisi quella sera di febbraio. «Ricordo che pioveva, io sono arrivato intorno alle 21. Per risalire all’orario dell’aggressione abbiamo allineato tutti gli elementi a disposizione tra testimonianze, telefonate, tabulati e telecamere, collocandola fra le 20.37 e le 20.41. Lui era una personalità eclettica, abbiamo approfondito tutte le piste possibili».
Mentre l’analisi delle celle telefoniche ha permesso di piazzare nella zona dell’aggressione tre dei sei imputati: Arcuri e Abbate, insieme ad Antonino Siragusa. C’è anche una conversazione intercettata quel giorno in cui quest’ultimo, parlando con la compagna, descrive la dinamica di quello che a breve sarebbe accaduto in via Turrisi. E anche le immagini riprese dalle telecamere di Mail Boxes raccontano una storia analoga, riprendendo alle 20.19 due persone identificate come Ingrassia e Siragusa, gli stessi che alle 20.48 vengono ripresi nel porticato che collega via Turrisi 38 con piazza Orlando, in direzione del palazzo di giustizia. «L’aggressione era appena avvenuta e l’avvocato era ancora a terra, a pochi metri da lì – conclude il teste -. Nelle riprese non si voltano mai in direzione del punto dell’agguato».
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