Omicidio Famà, a vent’anni dal delitto di mafia I giovani: «Era studente, avvocato, magistrato?»

«Scusi, buonasera», sette colpi di pistola, poi il rumore di due auto che fuggono. Sono passate da poco le 21 del 9 novembre 1995. «A Catania è stato ucciso l’avvocato Serafino Famà». È la voce della televisione – rimasta accesa su Rai Tre, quella sera – che lo dice a spettatori, parenti, amici e colleghi. Ma venti anni dopo il delitto, le giovani speranze della facoltà di Giurisprudenza e del tribunale catanese – dove un’aula e la camera penale sono state intitolate alla sua memoria – interrogate da MeridioNews, se ricordano il nome Famà poco sanno della storia e della figura del giurista catanese. «È uno studente o un docente?», risponde un universitario. «Ricorre oggi l’anniversario della sua uccisione, ma – chiede un’avvocata sulle scale del Palazzo di giustizia – era un avvocato o un magistrato?». Penalista, fu condannato a morte dalla mafia catanese – stando al giudizio confermato nel 2001 in Appello e poi in Cassazione – per avere scelto di difendere «nel corretto esercizio dell’attività professionale» una sua assistita. 

«È tra le vittime di mafia raffigurate nel murales di piazza Lanza, ma non so altro» afferma uno
studente, fuori dalla facoltà di Legge. Sono le confessioni del pentito Alfio Giuffrida – due anni dopo il delitto – a portare nel 1999 a nove condanne. Ergastoli, poi confermati, per Giuseppe Di Giacomo e Matteo Di Mauro – ritenuti mandanti dell’omicidio – e per quattro dei cinque uomini accusati di essere gli esecutori materiali. Tutti – secondo la sentenza – componenti della famiglia mafiosa Làudani, detti Mussi di ficurinia. «Ma perché lo hanno ucciso?», domanda una studentessa con in mano il codice penale. «Consigliò l’amante di Di Giacomo – moglie di un suo assistito, chiamata a testimoniare in un procedimento a carico del mafioso – di tutelare sé stessa avvalendosi della facoltà di non rispondere», spiega a MeridioNews una giovane avvocata, prima di entrare in Tribunale. «Senza minimamente badare – aggiunge la sentenza di Appello – agli interessi del capo della consorteria mafiosa». Identificato dalle carte processuali in Di Giacomo, «che sperava invece di riabilitare il suo onore e uscire di galera – conclude l’avvocata – se la donna avesse negato davanti al giudice il loro incontro extraconiugale».

L’ordine di armare i killer partì dalla sala colloqui del carcere fiorentino di Solicciano, dove Di Mauro incontrava spesso il cognato Di Giacomo. Ma questo particolare, come molti altri dettagli del delitto, è ormai sconosciuto alle nuove leve della giurisprudenza catanese. Il movente risale alla notte dell’arresto di Di Giacomo, quando la donna fu trovata in compagnia del boss, a letto. Modalità – raccontate nel verbale dei carabinieri, quindi pubbliche – che secondo la Corte d’Appello sarebbero state ritenute compromettenti sia dal punto di vista processuale sia per l’onore sessuale dell’imputato. A due anni dall’inizio del processo – a giugno del 1995, mentre è ancora recluso a Solicciano – Di Giacomo viene condannato, per associazione a delinquere di stampo mafioso, a otto anni e sei mesi in via definitiva. Cinque mesi dopo, sei pallottole calibro 7,65 colpiscono Famà mentre – uscito dal portone del suo studio, al 60 di viale Raffaello Sanzio – sta raggiungendo l’auto per rincasare. Inutili i soccorsi chiamati dal collega Michele Ragonese – testimone oculare dell’omicidio – come la corsa in ambulanza all’ospedale Garibaldi. Quando gli avvocati in toga dovettero alternarsi per vegliare la salma in tribunale, le adesioni furono tante che al picchetto parteciparono in otto per turno. Con stupore dei colleghi che temevano di non riuscire a trovarne nemmeno quattro. Ma quanti oggi conoscono questa storia? Un giovane avvocato incontrato all’uscita da un’udienza risponde: «Cercherò su internet». 

A 57 anni il penalista muore lasciando la moglie Vittoria, il figlio Fabrizio e la figlia Flavia. «Famà non era “l’avvocato dei boss”, come scrisse allora qualche giornale – dice a MeridioNews un’avvocata civilista – ma l’esempio di come si possa garantire il diritto alla difesa, anche alla persona più spregevole, con etica e deontologia, rispettando la legge a sprezzo della convenienza». È giovane, esercita da poco la professione. «Ma partecipo alle commemorazioni del 9 novembre da quando sono praticante». Gli appuntamenti di quest’anno – iniziati domenica – si concluderanno nel pomeriggio al Teatro Massimo Vincenzo Bellini con l’incontro Morire di toga per la difesa dei diritti. «Mi commuovo ogni volta durante gli interventi di Enzo TrantinoGoffredo D’Antona – che era amico di Famà, continua l’avvocata – La sala è sempre piena ma i giovani sono pochissimi e parecchi miei colleghi coetanei non conoscono neppure chi sia Serafino Famà». «Che gli studenti di Giurisprudenza non sappiano chi è Famà è disarmante ma è colpa dell’avvocatura – replica D’Antona, che ricorda quando nel 2012 furono pochi gli universitari a partecipare alle commemorazioni per l’anniversario, svolte nella facoltà – Mentre i giovani avvocati che non sanno se Famà fosse o meno un avvocato sono degli imbecilli o capre».

Marco Di Mauro

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