Omicidio Di Bona: 38 anni dalla morte per mano mafiosa Figlio: «La verità grazie a un verbale ritrovato da me»

«A che l’ho visto, a che non l’ho visto più». Di quella sera del 28 agosto 1979 ricorda ancora tutto molto nitidamente Giuseppe Di Bona, malgrado all’epoca avesse solo sei anni. «Rosa mi vado a prendere un caffè e ti vengo a prendere» aveva detto suo padre alla moglie. Lui è il maresciallo Calogero Di Bona, guardia penitenziaria all’Ucciardone di Palermo. Aveva fatto il turno di notte e quella sera a casa aspettava alcuni ospiti: era la vigilia del suo trentacinquesimo compleanno, avrebbero aspettato la mezzanotte insieme. Solo che Calogero a casa non torna più. Sparito nel nulla. «Mia madre è andata dai carabinieri la stessa sera e il giorno dopo sono ufficialmente partite le ricerche», racconta il figlio. Dopo qualche giorno viene ritrovata la sua Fiat 500 abbandonata nei pressi del ponte di via Belgio, con gli sportelli aperti. «Vista dai miei sei anni quella scomparsa mi sembrava uno scherzo – continua -. La mia mente di bambino mi faceva credere che lui fosse a casa, nascosto. Ricordo che ho aperto tutte le porte per cercarlo, ma lui continuava a non esserci».

Il primo a mettersi a indagare è il giudice Rocco Chinnici, «era lui che teneva le redini di tutto. Ogni 15 giorni mandava a chiamare mia madre, per sapere come andassero le cose». Le indagini durano dal 1980 sino alla morte di Chinnici, avvenuta nel luglio dell’83. «Ricordo ancora una sua frase sul caso di mio padre – dice Giuseppe – Scrisse che “i motivi della scomparsa del maresciallo Di Bona erano da ricercare tra le mura del carcere Ucciardone di Palermo. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, tipicamente mafiose”». Dopo la morte del giudice le indagini subiscono un forte arresto e la famiglia inizia a perdere le speranze: «Abbiamo perso l’unica nostra persona di riferimento, non sapevamo più a chi rivolgerci». Ma nel 2010 le cose si sbloccano: «Ho scoperto per caso l’esistenza di un verbale all’interno di una sentenza di circa 880 pagine, quella nei confronti di Bruno Contrada, in cui si parlava della scomparsa di mio padre». A tirare in ballo la storia della fine del maresciallo Di Bona è il pentito Gaspare Mutolo: ai magistrati racconta che era stato sequestrato e ucciso, strangolato e poi bruciato in un forno crematorio che i mafiosi utilizzavano, in un terreno nella zona residenziale di Città Giardini. Il pentito, si leggeva in quel verbale, accusava del delitto i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga.

Si riaprono così le indagini, durate un paio di anni, fino a ottenere finalmente la verità. Le udienze sono parecchie, ma il finale è sempre lo stesso: ergastolo in corte d’Assise e in corte d’Appello. Ad aprile sarà il turno della Cassazione. «Subito dopo aver letto quel verbale ammetto di essermi sentito preso in giro: lo avevo trovato casualmente cercando su Internet e risaliva al 1994, non era quindi un documento recente. Non sono riuscito a contenere la rabbia». Com’è possibile, si chiede, che dal 1994 a quel momento nessuno si sia occupato di quel verbale e delle dichiarazioni che conteneva? «Com’è possibile che per rimettere in moto le indagini e far riaprire il caso di mio padre ho dovuto trovare tutto io? Quando ho letto questo verbale mi è crollato il mondo addosso», dice Giuseppe. Col tempo si aggiungono le dichiarazioni di altri pentiti, «ultrasettantenni che erano stati rinchiusi all’Ucciardone e che poi si sono ricordati della storia di mio padre. C’erano mafiosi che all’epoca si vantavano di questo omicidio e chi lo ha ascoltato ai tempi, poi si è ricordato».

Il movente ricostruito dagli agenti della Dia si ricollega al pestaggio subito da un collega del maresciallo Di Bona: «Risale a qualche settimana prima della scomparsa di mio padre: Michele Micalizzi, genero del boss di Partanna-Mondello Saro Riccobono, pestò un agente». L’episodio avvenne dentro il carcere Ucciardone, dove Micalizzi era detenuto per l’omicidio dell’agente Cappiello. I termini di custodia però stavano per scadere e la segnalazione di questo episodio avrebbe potuto trattenerlo ulteriormente e impedirgli di tornare in libertà. «Mio padre ha relazionato tutto, se ne stava occupando – racconta ancora – Quindi in un certo senso è come se lo avessero voluto punire». «Solo crescendo ho cominciato a capire la situazione. Non è una storia che posso dimenticare», dice Giuseppe, da anni volontario tra le fila di Libera, l’associazione fondata da Don Ciotti. «La mancanza di mio padre l’ho sempre sentita moltissimo, soprattutto durante le feste natalizie. Anche se ero un bambino, ricordo ancora molto bene la sera in cui è sparito. A noi rimane solo la memoria da divulgare – conclude – Queste sono storie che vanno raccontate e tenute in vita».

Silvia Buffa

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