Non siamo ‘primitivi capaci solo di conoscenze tecniche’

Mi fa piacere che siffatte opinioni siano divulgate, e spero che i nostri studenti riflettano su quanto gli autori pensano in merito alla cultura.

Non posso che condividere in pieno quanto Marìas afferma e vorrei, a tale proposito, spingere tutti a riflettere su due questioni essenziali toccate dallo scrittore spagnolo: la prima in ordine alla traduzione, e la seconda in ordine alla letteratura. I due aspetti sono poi complementari, giacché, come tutti sanno, lingua e letteratura costituiscono un bionomio inscindibile.

 

Perché si traduce? Perché si continua a tradurre? Javier Marías mette in luce un aspetto certamente importante: la divulgazione, il bisogno cioè di espandere il pensiero degli scrittori oltre i confini di chi riesce a fruire un testo nella sua lingua originale. Questo, senza dubbio, è un aspetto importante, ma, come rileva lo stesso scrittore, il rischio è un allontanamento dalla lingua originale, specie se ci misuriamo con scrittori del passato.

 

So perfettamente quanto sia difficile leggere un testo del Trecento nella sua veste linguistica originale, e quanto sia complessa la lettura, per noi italiani, di un Decameron, ma ritengo che sia proprio la distanza temporale che ci separa da quei testi a essere il punto d’incontro tra “noi” e “loro”. La traduzione va benissimo, e serve a un primo contatto, ma poter fruire un testo così come l’autore del suo tempo l’ha redatto è estremamente affascinante. Purtroppo non potrò mai leggere Le mille e una notte in arabo, così come mi sarà difficile apprezzare le sfaccettature linguistiche di molti autori tedeschi (sicché ho letto le Affinità elettive in traduzione italiana). E allora, condivido pienamente quanto sostiene Marías circa la possibilità di tradurre più e più volte uno stesso testo, senza che questo smetta di essere se stesso.

 

Va altresì precisato, però, che purtroppo la nostra cultura dà poco rilievo al lavoro del traduttore; molti dei testi che leggiamo recano soltanto il nome di chi ha tradotto senza per questo darci indicazioni sui problemi dei traduttori. Mi piacerebbe, infatti, poter sapere le difficoltà che s’incontrano nel tradurre Le mille e una notte in lingua italiana, e le diverse edizioni dovrebbero essere accompagnate anche da brevi note che motivino le scelte del traduttore nei punti più difficili. Comprendo, allo stesso tempo, che l’editoria dovrebbe affrontare costi che poi ricadrebbero sul povero lettore al momento dell’acquisto di un libro! In definitiva, il lavoro traduttorio non potrà mai cessare, e proprio grazie all’impegno di molti traduttori possiamo entrare in contatto con testi di culture diverse, così da poter ampliare i nostri orizzonti e cogliere forme di pensiero differente dal nostro.

 

In merito a ciò vorrei passare alla seconda questione messa in evidenza da Javier Marìas: la letteratura. Spesso gli studenti si lamentano della letteratura. Sembra che si tratti di uno studio difficoltoso, pesante, ritenuto per lo più inutile. La mia formazione linguistico-filologica, però, mi ha permesso di esaminare i testi letterari da un punto di vista non solo estetico, bensì anche linguistico. La lirica, il romanzo, il teatro, sono forme di comunicazione; Marías parla, giustamente, della letteratura quale forma di riflessione che ci permette di comprendere meglio noi stessi e il mondo, ma la letteratura è anche comunicazione di idee concrete travestite sotto forma di metafora. E, mi domando, cosa c’è di più interessante che poter cogliere, dietro una favola, un messaggio concreto? Una sorta di sfida che ci spinge a mettere in moto una serie di esperienze personali al fine di percepire il pensiero dello scrittore; riflettere su quanto egli dice, cogliere le capacità espressive e in che modo usa la lingua.

 

Sono, questi, tutti aspetti che concorrono al nostro personale arricchimento che si riversa nella nostra personale vita quotidiana. E allora, sarà il caso, mi domando, di spogliarsi del vecchio topico della letteratura come studio noioso? Credo proprio di sì. Ricordo che Leonardo da Vinci, da tutti stimato sommo uomo di scienza, era anche un letterato, così come Galileo Galilei, nel redigere i suoi trattati scientifici, ricorre a uno stile che non può prescindere dalla lingua e dalla cultura barocche del proprio tempo.

 

Tanto ancora si potrebbe dire sul discorso pronunciato da Javier Marías (per esempio sul concetto di “autore classico” e su chi siano da ritenere classici e perché), ma si aprirebbe un dibattito dalla portata colossale. Per concludere, non trasformiamoci in “primitivi capaci solo di conoscenze pratiche”, ma piuttosto perseguiamo la virtù e la conoscenza che ci ha insegnato Dante (messaggio quanto mai attuale) cercando di coniugare tutto nell’ottica di un nostro personale arricchimento, sicché cultura pratica sì, ma anche cultura umanistica.

Gaetano Lalomia

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