La valenza provocatoria era abbastanza chiara. Nel momento più solenne della vita democratica dell’ateneo, proprio nel pomeriggio del gran giorno dell’elezione del Rettore, mentre le ultime schede volavano dentro le urne depositate alla Cittadella universitaria e nell’Aula Magna del Rettorato, mentre qualche premurosa segretaria si affrettava a mettere in freddo lo champagne con cui brindare, mentre Presidi di Facoltà, Direttori di Dipartimento, Coordinatori di Dottorati di Ricerca e Chiarissimi d’ogni disciplina e d’ogni fama sceglievano la cravatta con cui recarsi al tradizionale “spoglio” in pubblico con susseguente acclamazione del Magnifico, ecco lì gli ultimi degli ultimi, quelli che è così difficile raggruppare sotto un’unico nome, ricercatori-non-strutturati, cultori-della-materia, dottorandi, neo-dottori-di-ricerca, assegnisti, borsisti, post-borsisti, docenti-a-contratto, aspiranti-al-concorso per ricercatore programmato tra tre anni (chissà!), cioè gli irriducibili eroi della ricerca, il gradino più basso, o se preferite l’ultima ruota del gran carro dell’accademia, gli “assistenti” dei prof, i dannati della terra, i senza futuro, riuniti a parlare di “Università e democrazia”.
Con questo slogan si è svolta lunedì, nei locali del Medialab di Piazza Dante, una tavola rotonda organizzata dal“movimento” dei precari dell’Università di Catania. Ospiti quattro docenti: Maurizio Caserta (Economia), Vincenzo Cucinotta (Scienze), Luciano Granozzi (Lingue e Letterature straniere), Francesco Priolo (Scienze Matematiche); coordinatrice dell’evento Letizia Ferlito. In apertura l’intervento di Maria Merlini e Antonio Las Casas per il Coordinamento Precari della Ricerca: “il coordinamento di cui facciamo parte è nato durante la contestazione alla riforma Gelmini. Qui in Italia la spesa pubblica destinata alle università è nettamente inferiore alla media OCSE. L’età media dei ricercatori è alta. La ricerca va avanti grazie ai precari che svolgono il loro lavoro senza nessuna garanzia”. E proseguono spiegando la condizione di un’intera generazione costretta a lavorare senza diritti – non hanno diritto al versamento dei contributi per la pensione o la maternità, non possono dirigere ufficialmente loro progetti di ricerca pur essendone in molti casi i veri ideatori – proponendo l’arcinoto cahier de doléances: “Con questa riforma vi sarà il blocco del turnover, entrerà in campo la cosiddetta ‘virtuosità’ e si svilupperà maggiormente il precariato. Pur proclamando la meritocrazia, queste misure, in realtà, consolideranno il potere dei ‘baroni’ ed apriranno le porte della gestione degli atenei all’invadenza del sistema politico locale. Ci troviamo di fronte a una strategia di smantellamento dell’università pubblica.”
Rivolgendosi ai docenti presenti, i precari hanno poi posto sul tavolo alcune questioni. La prima è quella del reclutamento. Chi e come recluta i docenti? Pare che l’unico metodo che si vuole utilizzare per debellare il malcostume sia quello di tagliare i fondi. Il secondo tema è quello di chi valuta. Deve farlo il mercato? Devono farlo soggetti esterni all’università? Deve farlo la stessa comunità scientifica? A quali organi deve rispondere l’Università? Il terzo riguarda la riorganizzazione del “governo” degli atenei. Cosa deriverà dal progetto anticipato dalla Gelmini? Infine, che rapporto dev’esserci tra università ordinaria e segmenti “d’eccellenza”. Insistendo sui centri d’eccellenza che cosa succede all’università?
Il professor Granozzi non è sfuggito al tema “democrazia”, collegandolo alle elezioni del rettore. “La democrazia inizia adesso e dipenderà anche da voi. Democrazia infatti non è solo il momento elettorale, ma la qualità della pubblica controversia sulle scelte da compiere. Dobbiamo dire, senza nessuna cattiveria e serenamente, che la qualità del dibattito in occasione della scadenza dell’elezione del rettore è stata scadente. Sono mancati due temi essenziali: didattica e ricerca. Il primo riguarda la qualità dell’offerta didattica in vista dell’applicazione del Decreto Ministeriale 31 ottobre 2007 n. 544 sui “requisiti minimi” dei corsi di laurea, soprattutto la qualità delle nostre lauree specialistiche e la programmazione di un riequilbrio tra le facoltà a partire dalla didattica, il secondo vi riguarda direttamente: è la questione del futuro della ricerca che voi rappresentate in carne ed ossa. Sappiamo che il prof. Recca ha manifestato più volte il suo agnosticismo nei confronti della riforma: “il compito del rettore non è quello di combatterla ma solo di applicarla nel modo più virtuoso possibile”. D’altra parte abbiamo visto i candidati “antagonisti” essere o parimente indifferenti, o del tutto incapaci di coniugare gli strali contro i provvedimenti del governo con concrete proposte sulla gestione dell’ateneo. C’è stato un fragoroso silenzio su questi temi. Chi forse aveva qualcosa da dire è stato zitto, paralizzato dal momento elettorale e dalle logiche di schieramento.
Guardando al vostro movimento, colpisce l’enorme differenza tra l’Italia e la Francia. In Francia abbiamo visto intervenire, in difesa del “sistema francese,” docenti di chiarissima fama, presidi, rettori e il movimento di opposizione al governo è andato avanti per mesi coinvolgendo tutte le componenti del mondo universitario. Eppure, inizialmente, la riforma di Valérie Pécresse era passata senza incontrare grandi opposizioni, in un clima di rassegnazione, se non di condivisione. Poi è successo che l’applicazione di alcuni provvedimenti concreti ha risvegliato l’orgoglio di tutte le componenti universitarie proprio a partire dal tema del precariato e della formazione dei dottorandi”. Granozzi ha concluso auspicando che il “movimento” cessi di fare soltanto discorsi generali di opposizione di principio alla riforma Gelmini e sia capace di trovare obiettivi praticabili anche sul piano locale. “Perché ad esempio non chiedere – ha detto – l’inserimento dei cosiddetti precari nel catalogo della ricerca di ateneo? Perché non pensare a un rinnovamento del regolamento dei Dipartimenti che conferisca ai giovani ricercatori uno spazio di rappresentanza autonomamente gestito a partire dai Dipartimenti? Perché non pretendere un piano straordinario per i giovani ricercatori? Abbiamo visto che durante il dibattito elettorale ci si è molto accalorati attorno ad alcune scelte di investimento immobiliare, ma nessuno prende sufficientemente a cuore l’investimento sul patrimonio costituito dalla formazione dei giovani ricercatori”.
Secondo il professor Francesco Priolo, della facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali “Si parla sempre di ricerca, ma nessun governo, di nessun colore, ha investito realmente su questo fronte. Qui in Italia, chi fa ricerca lo fa per hobby. In Svezia la ricerca riveste un ruolo importantissimo, dal momento che viene assegnata la cattedra non al docente più anziano, ma a quello che fa più ricerca”. Priolo si è poi chiesto: “Dato che la ricerca deve essere valutata, nel momento in cui ciò viene fatto, la valutazione, che effetti ha? Se le risorse finanziarie assegnate ai dipartimenti dipendessero dal giudizio sui risultati delle ricerche, sarebbe automatico fare scelte selettive”. Priolo ha poi concluso affermando che sarebbe sbagliato pretendere opportunità solo per i ricercatori catanesi precari: “Bisogna combattere perché le opportunità si creino e perché siano aperte a tutti, tutti devono poter competere senza distinzione alcuna”.
A seguire, l’intervento del professore Vincenzo Cucinotta sempre della facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, il quale si è soffermato sui cambiamenti che negli ultimi decenni hanno subito le università italiane dal punto di vista della “governance”: “Il processo di autonomia affonda le sue radici nella formazione di una miriade di organi decisionali interni già a partire dagli anni Settanta. Allora se ne sottolineò il valore “democratico”, la possibilità per tutti di potersi esprimere. Dovremo interrogarci seriamente sull’efficacia di simili forme di autogoverno dell’università: abbiamo inutilmente moltiplicato all’infinito i processi decisionali. C’è oggi il rischio di volersi sottrarre a questa ragnatela di organi decisionali spostando all’esterno dell’università i centri di ricerca d’eccellenza”.
A chiudere, l’intervento del professor Maurizio Caserta della facoltà di Economia, il quale si è soffermato sui rapporti tra pubblico e privato: “L’università ha una funzionie eminentemente pubblica, come quella, ad esempio, di produrre conoscenza per poi applicarla in qualcosa di utile. La funzione “pubblica” può essere salvaguardata anche ottenendo risorse che, a parer mio, possono anche essere risorse private. Quindi la funzione pubblica può essere svolta anche da poteri privati. Sia l’ente privato che quello pubblico vogliono delle garanzie: se nel caso del primo tali garanzie sono più legate al profitto, è il consenso politico a conferire forza al secondo”. Caserta ha quindi concluso chiedendosi se “avrebbe effetti benefici un governo dell’università in cui fosse possibile stabilire collegamenti virtuosi tra la fornitura privata e l’Ente pubblico”. Insomma, un equilibrio molto difficile.
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