Nicolò Carnesi e il suo nuovo singolo Consumati

È uscito il 30 aprile scorso il secondo singolo (Consumati) che anticipa il nuovo album di Nicolò Carnesi, palermitano, considerato dalla critica come una delle penne più ispirate della nuova scena cantautorale. 

A breve si riparte, con nuovo album e concerti, per quanto possibile e con grossi limiti. Come ti senti a tal proposito?
«Mi sento abbastanza bene, devo dire che ho maturato un bel po’ di ansia, adesso che si avvicina questa pseudo-normalità. Ma il fatto di tornare a suonare i nuovi brani, a parlarne con le persone anche dal vivo, come in questi giorni, aiuta a rimettersi nella carreggiata della normalità. Ci vuole del tempo, ci si deve abituare, ma sono positivo, anche senza tampone, a livello intellettuale (si scherza)».

Il nuovo singolo si intitola Consumati. Consumati da cosa?
«Un po’ da noi stessi, dal fatto che in molti casi siamo diventati noi il prodotto e il prodotto di per sé va consumato. Ci propinano di continuo slogan, pubblicità, punti di vista. Attraverso i miei filtri, essendo un musicista, mi soffermo poi sul lato musicale della cosa: la musica è diventata un prodotto di consumo veloce, un disco o una canzone dura il tempo della sua uscita e poi si biodegrada. E ho come l’impressione che molto spesso non rimanga nulla. E questo un po’ mi spaventa, anche perché accade soprattutto nel mondo dell’arte, dove sarebbe bello se rimanesse qualche base solida. Da qui nasce il dubbio che mi porta a mettermi in discussione, sia nel campo in cui lavoro che nella società». 

Dell’album non è però stata ufficializzata alcuna data di uscita.
«Non ho ancora deciso. Sto valutando quale potrebbe essere il periodo migliore, perché ci terrei a poterlo suonare dal vivo al meglio. Nel frattempo, quest’estate, porterò in giro sia i miei cavalli di battaglia che queste nuove canzoni». 

Tornando al consumismo di cui parlavi, che in quest’ultimo periodo, vivendo molto a casa e sui social, potrebbe aver subito un peso più rilevante, confidi un po’ nelle generazioni future, come i figli dei quarantenni di oggi, cresciuti leggendo i testi delle canzoni nei book dei cd o vinili, o hai una visione poco speranzosa verso gli anni a venire?
«Io nella vita sono abbastanza pessimista, in genere, ma sicuramente, quelli che a breve saranno i nuovi ventenni avranno qualcosa di nuovo da dire. Bisogna capire come si approcceranno a un sistema già oliato. Probabilmente tenderanno a inseguirlo. O magari, come la storia nella sua ciclicità ci insegna, ci sarà un punto di rottura e allora tutto si ribalta. E mi piacerebbe viverla una cosa del genere: una valanga di giovani con idee nuove e voglia di rompere quello che noi stiamo digerendo passivamente. La parte più pessimista di me teme invece che vengano inghiottiti dalla potenza del capitalismo». 

Dovremmo insomma confidare in un nuovo ’77 o in un “grunge 2.0” o qualcosa di simile. E se dovessi fermare tutto in un’epoca o un anno, come un’istantanea permanente, in che periodo bloccheresti le lancette dell’orologio?
«C’è questo 7 che ritorna almeno in due annate: il ’67 e il ’77. Forse, per ciò che mi ha ispirato, ti direi il ’77, perché da lì nasce poi la nuova ondata della new wave che ne seguirà e che ancora oggi mi attira a sé, con quelle cose che per me sono ancora avanti. Gran parte della musica pop di oggi strizza molto l’occhio a quegli anni e agli ’80. Nel ’77 ci vedo Marquee Moon dei Television, uno dei capisaldi della mia istruzione musicale, un cambiamento nell’utilizzo delle chitarre, della voce e della batteria».

Paolo Mei

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