Aggirare il protocollo Antoci e beffare così, una volta di più, le istituzioni. È quanto la mafia dei Nebrodi avrebbe tentato di fare negli ultimi due anni, attraverso un aumento della propria forza intimidatoria sull’economia locale. Sarebbe questa la ricostruzione fatta dagli investigatori e che ieri ha portato all’arresto di nove persone tra Cesarò, Maniace e Bronte, tra i quali anche i presunti reggenti dei gruppi mafiosi locali Giovanni Pruiti e Salvatore Catania. A questi ultimi, si aggiungono i nomi di Carmelo Giacucco Triscari, di San Teodoro, e di Antonino Galati e Salvatore Germanà, entrambi di Maniace.
Furti, danneggiamenti e minacce che sarebbero state messe in atto con il chiaro intento di riprendersi quello che gli era stato tolto. Le novità introdotte dall’accordo sottoscritto il 18 marzo 2015 dalla prefettura di Messina, dal Parco dei Nebrodi e dai Comuni del comprensorio – a partire dall’abbassamento della soglia sotto la quale prima non era necessario presentare documentazione antimafia per poter partecipare a bandi sui finanziamenti pubblici – hanno infatti causato la revoca di molte concessioni demaniali a figure ritenute riconducibili a esponenti delle cosche. E anche legami di sangue ci sono, in più di un caso, tra i titolari delle concessioni e alcuni degli arrestati.
Il danno economico che ne è scaturito per gli ex concessionari – e che, secondo gli investigatori, ricadrebbe in realtà sulle casse della criminalità organizzata – sarebbe stato tale da innalzare la tensione su tutto il territorio. E a ciò sarebbe collegato l’attentato al presidente del Parco, Giuseppe Antoci, salvatosi, a maggio dello scorso anno, soltanto grazie all’auto blindata da un agguato sulla strada che collega Cesarò a San Fratello. Nei piani delle cosche, però, non ci sarebbe stata soltanto la vendetta ma anche la volontà, come detto, di rimettere le mani sui terreni dei Nebrodi, divenuti negli anni una fonte incredibile di guadagno. Per fare ciò, i clan avrebbero cercato di aggirare la legge puntando non più sul pubblico, ma sui privati.
La normativa che regola l’erogazione dei fondi pubblici prevede infatti il possesso di tre requisiti per potere fare richiesta di finanziamenti: i titoli riconosciuti dall’Agea, la proprietà di bestiame e di terreni. Questi ultimi legati in maniera proporzionale, per cui a un determinato quantitativo di animali è necessario far corrispondere un’estensione minima di campi. Ed è così che, venendo meno le concessioni, i clan si sarebbero trovati nelle condizioni di recuperare gli ettari persi. Per farlo, avrebbero usato estorsioni, intimidazioni e atti vandalici, utili a convincere i privati a svendere le proprietà. Terreni che poi sarebbero stati acquistati dalle cosche tramite nuovi prestanome.
Tale modus operandi, tuttavia, potrebbe presto trovare un altro ostacolo. Tra meno di dieci giorni, infatti, dovrebbe essere depositata in Parlamento la proposta di legge per estendere il protocollo Antoci in tutta Italia e, soprattutto, anche ai privati.
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