Una giornata in quasi totale silenzio. La trasferta catanese del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è trascorsa ascoltando istituzioni, rappresentanti dei lavoratori, politici e studenti. Tra una cena, martedì sera, all’hotel Baia Verde per festeggiare il compleanno del sindaco Enzo Bianco, e un pranzo con tanto di tagliolini ai ricci. Solo alla fine, nella sede della St Microelectronics, Napolitano ha preso la parola in pubblico. «Sono molto felice che la mia visita a Catania si concluda qui, il vostro è l’esempio di come in Italia e in Europa si possa portare avanti, nel processo tumultuoso della globalizzazione, la nostra identità e le nostre tradizioni». Lontane dalle sue orecchie sono rimaste le voci del dissenso: lavoratori disoccupati o in cassa integrazione, Forconi, Cinque Stelle, movimenti e sinistra radicale che, di mattina in corteo per le vie del centro blindato, nel pomeriggio davanti al portone dell’ex monastero dei Benedettini, anch’esso interdetto ai semplici cittadini e agli studenti, hanno protestato contro «il massimo artefice delle politiche d’austerity e di recessione degli ultimi anni».
Il presidente della Repubblica ha attraversato una città diversa dal solito. Le palme messe sul tragitto che dall’aeroporto lo ha condotto in centro; i cartelli nuovi di zecca che annunciano il Welcome to Catania; le piazze e le strade solitamente gestite dai posteggiatori abusivi, improvvisamente libere. Arriva puntuale alle 10 in una piazza Duomo riempita per metà, soprattutto da bambini. In Comune presenzia alla cerimonia della firma del nuovo Distretto Sud-Est Sicilia siglato tra le province di Catania, Siracusa e Ragusa, e siede in prima fila accanto al presidente della Regione Rosario Crocetta. La sala è piena di invitati, 200 in totale: dal vice presidente di Confindustria Ivan Lo Bello al sottosegretario Giuseppe Berretta, passando per il sindaco di Bronte Pino Firrarello. Ne manca solo uno: il procuratore capo di Catania Giovanni Salvi. «Non sono stato invitato», afferma. C’è invece Giovanni Tinebra, collega e candidato sconfitto alla sua stessa poltrona. Sembra l’unica nota stonata in una giornata di ritrovata grandeur. Per la città e soprattutto per il suo sindaco. L’immediata chiamata di Enzo Bianco chiarisce la vicenda. «È stato un disguido, l’invito è arrivato tardi», precisa Salvi nel pomeriggio.
Dopo la visita privata in Cattedrale davanti al busto reliquiario di Sant’Agata e l’immancabile illustrazione del commendatore Luigi Maina, presidente del comitato per le celebrazioni per la festa della patrona, Napolitano torna all’hotel Baia Verde. Pranzo e riposo. Pomeriggio ad attenderlo all’ex monastero dei Benedettini ci sono ancora proteste, le stesse facce del corteo della mattina. Ma il presidente entra dall’ingresso posteriore di piazza Vaccarini e gli slogan contro le politiche di austerity, contro la decisione di non deporre al processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia e ancora contro la ritrosia verso il ritorno alle urne, rimangono lontane. «Oggi l’Università è chiusa agli studenti -urla Matteo Iannitti, di Catania Bene comune ma è proprio a loro che appartiene, non al rettore Giacomo Pignataro, al sindaco Bianco o al presidente Napolitano».
Chi prova a passare tra megafoni e striscioni è l’arcivescovo Salvatore Gristina. Ma la contestazione non risparmia neanche lui, reo di aver esposto le reliquie di Sant’Agata per l’occasione. «È una questione di accoglienza afferma l’arcivescovo, che si ferma pochi minuti e parla al megafono per replicare alle critiche – si è sempre fatto con le autorità, anche con il re». Accostamento infelice, visto che proprio il fantoccio di re Giorgio è stato portato dai manifestanti in corteo. Piovono buu di dissenso. «La chiesa si faccia gli affari suoi senza ingerenza nella vita degli italiani», urla una donna. Dentro l’aula magna Santo Mazzarino, Napolitano resta ancora in silenzio ad ascoltare il rettore Giacomo Pignataro e il rappresentante degli studenti Giovanni Magni, 22enne studente di Economia che dà voce alle paure e alle angosce della sua generazione.
Ultima tappa: zona industriale, dove sarà stato più difficile nascondere le buche sull’asfalto, l’erba alta nelle aiuole, i rifiuti non raccolti. Fortuna che non piove da qualche giorno, altrimenti il rischio che la berlina del presidente avesse dovuto zigzagare tra piccoli e grandi allagamenti sarebbe stato alto. Alla St Microelectronics lo aspettano i lavoratori. Anche loro arrabbiati, ma non con lui. «Vogliamo farci ascoltare dal presidente, abbiamo bisogno del suo aiuto, perché vogliono delocalizzare e non abbiamo un futuro», afferma uno di loro, Maurizio Bencivinni. Mentre aspettano Napolitano, si avvicinano il governatore Rosario Crocetta ed Enzo Bianco. «Il sindaco ci ha detto che ce la faremo e che se così non fosse, si incatenerà con noi», riferisce un’altra dipendente St, Maria Grazia Cassi. Alla fine dell’incontro anche il presidente della Repubblica scambia qualche parola con i lavoratori che se ne vanno soddisfatti. «Siamo riusciti a farci ascoltare dalla più alta carica istituzionale in Italia – spiegano – Ci ha detto che conosce la nostra situazione e che non si può perdere questo capitale umano tanto importante per il futuro del Paese».
Concetto ribadito anche all’interno della sede della St, dove Napolitano finalmente non si fa pregare per parlare. «Esempio di sviluppo per il Mezzogiorno, testimonianza di come si possa promuovere l’innovazione a Sud». Così definisce la St Microelectronics. Quindi va oltre, sottolineando come «non basti impiantare e portare a sviluppo una realtà come questa, ma serve saperla salvaguardare nei momenti di crisi». «Bisogna spostare l’attenzione dalla discussione a carattere rivendicativo nei confronti di ciò che deve venire da fuori e vedere invece come sostenere quello che c’è qui», spiega. Discorso che si lega al «fallimento dell’uso dei fondi europei», specchio di un fallimento più grande: quello «dell’autogoverno regionale del Mezzogiorno». «Dobbiamo correggere qualcosa di profondo nel modo di operare delle regioni, è necessario riformare il titolo quinto della Costituzione. Un caso raro – conclude – di riforma della riforma».
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