Un film talmente nero, Gomorra, da generare solamente sentimenti come oppressione, angoscia e disagio. Non c’è davvero spazio per un barlume di luce nel film di Matteo Garrone. Scelta voluta e inequivocabile, perché Gomorra va oltre il racconto delle trame camorriste per esplicitare l’esigenza e la volontà per il cinema di riappropriarsi di una contemporaneità su cui c’è davvero poco da ridere. “E se è sempre tempo per una commedia“, è anche tempo per un noir di allontanarsi dalle derive estetizzanti e spettacolari, per raccontare senza fronzoli un mondo chiuso, violento e spietato. Anche a rischio di cadere nella trappola del pedagogismo, ma documentando una realtà che ha nella sua stessa descrizione, tutta la portata drammaturgica di cui il cinema è potenzialmente capace. Una realtà che ovviamente ci sembra inafferrabile. Troppo lontana dalle ossessioni e dagli isterismi adolescenziali, dai trentenni in cerca di sé stessi, o dall’alienazione da call center, e dal generale impoverimento culturale di un paese in cerca d’identità.

In Gomorra l’unica identità data è la sopraffazione e l’unico obiettivo è la sopravvivenza. E’ la sconfitta dell’idea stessa di socializzazione primaria e financo di quella di familismo mafioso come idea di Anti-Stato. 25 mila affiliati e 200 mila fiancheggiatori sono numeri che non colpiscono l’immaginario quanto alcune biografie. Lo sa bene Garrone che i numeri li mette in coda e adatta il celebre e omonimo romanzo-inchiesta di Roberto Saviano, con una durezza sorprendente, filtrandone abilmente le suggestioni visivamente più colme di significato in una struttura da dramma corale che non concede nulla all’immaginario più comune del cinema noir.

Un film che tra paesaggi deprimenti, sopraffazioni economiche, evocazioni dialettali ed eccellenti attori non professionisti, illustra forse troppo, rinunciando a una chiave di lettura più interpretativa, conscio delle potenzialità visive di un universo criminale che lascia allibiti in tutte le sue manifestazioni. Ma è una scelta che alla fine paga, perché si assiste davvero con un profondo senso di malessere al percorso dei protagonisti che si muovono all’interno di una guerra sanguinaria: da Ciro, pagatore delle famiglie dei clan, ai due ragazzi non affiliati e col mito di Scarface, al giovanissimo Totò, dall’opportunista Franco, fino al sarto Pasquale, la figura umana più riuscita del film.

E ogni volta che si prova a respirare, come nell’apertura umana tra Pasquale e il cinese che lo ingaggia, un’improvvisa esplosione di violenza deflagra nel petto dello spettatore. Riportandoci nel dominio della violenza. Un po’ come la barbara iniziazione dei giovanissimi, pronti a farsi sparare attraverso il giubbetto antiproiettile, per potersi sentirsi finalmente importanti, dentro la camorra e contro un mondo “civile” che gli è indifferente.

Perché la guerra è ben lontana dall’essere terminata.

 

[Questa recensione è stata pubblicata il 13 Maggio 2008  su castlerock.it]

Adriano Aiello

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